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La ragazza con la racchetta

Lo sport è resilienza, la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, riorganizzare la propria vita di fronte alle difficoltà, ricostruirsi restando sensibili alle opportunità, senza alienarsi. Si possono leggere libri di grandi sportivi per scoprire questo oppure guardare negli occhi Maria Letizia e ascoltare la sua storia. Una storia fatta di vittorie e di sconfitte, di cadute, ferite, e di una risalita costante verso se stessa, colpo dopo colpo, rincorrendo una pallina da tennis.

«A Bibbiena c’era un’ottima scuola, maestri che lo facevano per passione, così ho iniziato a seguire mia sorella (Maria Paola, ndr) e, involontariamente, mi è presa voglia d’impugnare una racchetta». Maria Letizia Zavagli si è imposta presto, grazie alla sua regolarità e a quel rovescio a due mani lungo linea: «Correvo, sbagliavo poco, ma non avevo un gioco proattivo». A tredici anni, a Cagliari, vince i campionati italiani Under 14, la sua vittoria più bella, un’emozione così forte che tracima ancora oggi: «Convivo con questa suggestione. Prima di partire avevo messo in valigia un completino e detto a mia madre: “Questo lo indosso in finale”. Lei mi disse di non farci la bocca. In semifinale contro Flavia Pennetta perdevo 6-2 e 3-0, siamo andate sul 4-1 per lei, al cambio campo mi sono detta che non poteva finire così, volevo quello scudetto. Ho vinto 6-4 6-0 e poi la finale davanti a tutta la Federazione che era venuta a guardarci».

Il vento della Sardegna realizzò sogni e desideri, due mesi negli Stati Uniti, autografi, contratti con aziende d’abbigliamento sportivo. Poi Roma, dove studiavano e si allenavano le migliori e dove Maria Letizia incontra e diventa amica di Roberta Vinci e, soprattutto, Flavia Pennetta: «Con Roberta, che è più piccola, ho fatto quasi la mamma però non l’ho mai battuta. Con Flavia invece abbiamo vissuto come sorelle, condividendo tutto, lei sbagliava molto e quindi la battevo, ma si vedeva già tutto il talento e il carattere». Sono anni felici, anni di crescita e di formazione, anche se i maestri erano duri: «Magnelli decise di cambiarmi gioco, non mi riconoscevo più, scendevo in campo impaurita e perdevo. In Federazione se vinci vali, altrimenti sei fuori, io ritengo invece che le persone vadano aiutate se sono in difficoltà cercando di tirarne fuori il meglio. Per fortuna avevo Roberta e Flavia. Ricordo quella volta in cui volevamo spiare la Vinci col fidanzato e ci arrampicammo su un cespuglio cadendo. La Pennetta era come me, allegra, un po’ matta».

Il rapporto con Magnelli, però, sancirà l’addio di Maria Letizia al centro federale, è la fine del sogno. Torna a Bibbiena, poi riparte per Bologna, ritenta ma l’ambiente è pessimo e il tennis diventa un incubo: «Ancora oggi ho con questo sport un rapporto d’amore e odio. Purtroppo nessuno mi ha aiutata, un maestro dovrebbe essere un padre, invece era tutto così superficiale e non vedevano cosa provavo dentro». La ragazza di Bibbiena si chiude in se stessa, negli unici affetti che riconosce, genitori e la sorella (che adora), lo sport diventa sofferenza, per quello che poteva essere, per ciò che non è più, e si chiudono i ponti col passato, anche con quelle due amiche che vanno avanti, vincono e si realizzano: «Io mi allenavo più di loro, perché quando mi metto in testa una cosa la voglio fare perfettamente, do sempre il massimo, nel lavoro sono molto severa, soprattutto con me stessa. Così in campo, così nella vita. Con una differenza, nello sport le variabili sono tantissime, cose che non puoi controllare né prevedere; certamente per giocare alla grande devi stare bene con te stessa. A un certo punto ho lasciato il tennis e mi sono messa a studiare, col mio carattere mi riusciva ottimamente, prima la triennale di Sociologia, poi la specialistica in Scienze della politica e dei processi decisionali».

Maria Letizia, però, doveva sciogliere il nodo che le mordeva l’anima, come qualcosa d’irrisolto. Doveva tornare sul campo e schiacciare i fantasmi del passato, uno per uno. Doveva riprendere in mano la racchetta per ritrovare se stessa, la bambina innamorata della vita e della sorella, capace di alternare sguardi severi e sorrisi, concentrazione e leggerezza: «Quando Maria Paola è tornata da Milano ho ricominciato a riallacciare la tela degli affetti come la sentivo dentro di me e mio cognato, Jacopo Bramanti, che è un preparatore atletico, mi ha aiutato tantissimo. Mi ha capita, mi ha consigliato un percorso con una psicologa e piano piano mi sono ritrovata come persona e come tennista. Ho riannodato anche i rapporti con Roberta e Flavia. Non è facile, voglio fargli capire chi sono diventata, che percorso ho fatto, ma loro mi vogliono bene e me ne hanno sempre voluto. A volte litigo con Flavia perché non si fa sentire, ma capisco che adesso fa un’altra vita. Quando ho guardato la finale di Flushing Meadows le vedevo come se avessero ancora quattordici anni, poi hanno parlato in inglese e c’era pure Renzi».

Maria Letizia è tornata a giocare e a fare tornei, fino alla scuola per maestri: «Sia nella tesi di Sociologia che in quella per la scuola ho raccontato ciò che ho passato, ho cercato di spiegare quanto sia importante per un atleta essere compreso prima che spinto a vincere. Anche adesso, al Tennis Club Castiglionese (Castiglion Fiorentino, ndr), con i miei bambini, sto molto attenta alle loro personalità, cerco di avere quella sensibilità che non hanno avuto con me». Nonostante le ferite siano ancora visibili, nonostante le emozioni viaggino a fior di pelle, la rinascita di Maria Letizia è avvenuta attraverso il tennis, perché lei è una che gioca col cuore, che sa dare tutto per la squadra e che è uno spettacolo veder affrontare un doppio di spareggio.

L’idolo sportivo è Alessandro Del Piero: «Mai un gesto fuori posto, una parola di troppo, un campione. Se ero più stronza avrei sofferto di meno, ma io, seppur determinata, sono buona, cerco il meglio negli altri e a volte non vedo il marcio che c’è dietro». Nel mezzo una storia d’amore lunga dieci anni e ora un compagno tennista: «Se mi avessero chiesto come mi vedevo a ventisei anni avrei risposto sposata, con due figli e un lavoro. Adesso è diverso, voglio essere padrona della mia vita, vedremo». Quattro tatuaggi possono essere le tappe di un cammino aspro: un fiocco di neve sul piede, un delfino sul fianco destro, le rondini sul polso fatte uguali con la sorella, due fidanzati che si guardano sul braccio insieme con Federico, il quinto arriverà e sarà Maria Letizia: «Oggi sono una persona contenta del proprio percorso e soddisfatta di quello che sta facendo. Orgogliosa di avere aperto la porta per affrontare tutto ciò che mi faceva male». Perché quando il passato è una terra straniera la vita va presa come un rovescio a due mani.