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Marca e il gol non gol dello sciopero

Alla fine Marca è andato in edicola, così come Expansion, entrambi con articoli non firmati dai giornalisti e notizie prese dalle agenzie. Dello stesso gruppo, invece, non è stato stampato El Mundo, anche se lo sciopero più incisivo è stato sicuramente quello di Radio Marca, l’emittente legata al quotidiano sportivo, che è rimasta in silenzio per un numero imprecisato di ore, proprio mentre a Monaco di Baviera l’Atletico Madrid conquistava la sua terza finale di Champions League e in attesa che questa sera riesca al Real. La manifestazione organizzata da giornalisti e dipendenti ha una portata storica, perché è la prima volta che accade al gruppo Unidad Editorial, controllato da Rcs, che attraverso questo aveva acquisito Recoletos, uno dei più importanti editori spagnoli, per 1,1 miliardi di euro; con gravi ripercussioni poi sulla casa madre italiana.

Lo sciopero di 24 ore è stato indetto contro l’azienda che ha programmato 224 licenziamenti, di questi 185 sono giornalisti, 33 di Marca e Radio Marca. I media spagnoli non ricevono finanziamenti pubblici e la situazione è drammatica. Dal 2008 al 2012 sono stati licenziati 4.868 giornalisti (Osservatorio Fape), mentre molti professionisti e redattori sono stati declassati al contratto base che non supera i 1.000 euro il mese. Già quattro anni fa il gruppo Unidad Editorial cercava un miliardo di euro per risanare i conti, dopo l’acquisizione del gruppo Recoletos, mentre ce ne volevano 5 al gruppo Prisa che tra gli altri edita El Pais, diretto concorrente di El Mundo.

Uno dei picchi più alti di vendite di Marca, il quotidiano sportivo più letto in Spagna, è stato raggiunto il giorno dopo la finale del 2014, quando il Real vinse 4-1 contro l’Atletico ai tempi supplementari. Uno dei motivi che hanno spinto l’azienda a farlo uscire nonostante lo sciopero, per evitare un’importante perdita economica. Episodio che ha fatto riflettere gli ambienti editoriali europei sul potere di ricatto che lo sport, il calcio in particolare, ha su vertenze così importanti. I giornalisti hanno presentato all’azienda un pacchetto di scioperi che oltre quello di ieri, 3 maggio, prevede altre 24 ore di fermo il 10, il 17 e poi ancora il 21 se non sarà raggiunto un accordo. Anche se pare che i negoziati inizieranno solamente il 27, cioè il giorno prima della finale di Champions League, considerando che entrambe le finali di coppa potrebbero essere totalmente spagnole.

Il 6 settembre 2011 ha chiuso per sempre Don Balon, storico settimanale spagnolo, confratello del Guerin Sportivo (oggi mensile e con 100 anni di storia alle spalle compiuti nel 2012). Nel frattempo France Football è diventato settimanale invece che uscire il martedì e il venerdì. In questi anni la Champions League ha spostato gli equilibri delle televisioni a pagamento, nel bene come nel male, in termini di abbonati e pubblicità. Il calcio, sopra ogni altro sport, ha ridisegnato i parametri del proprio storytelling con la precedenza a chi paga i diritti e le briciole agli altri, che al di là delle difficoltà oggettive non hanno saputo adeguarsi. In Spagna ci si chiede se il potere contrattuale dello sport sarà sufficiente a mantenere a galla i giornali specializzati.

Quello che sappiamo è che il calcio, considerando il caso specifico di Madrid, dove il futbol non è una passione ma una guerra di religione, tra chi crede nelle Merengues e chi nei Colchoneros, ha costretto a rivedere uno sciopero che altrimenti sarebbe andato in porto nella sua idea originaria: tra il timore di perdere il posto di lavoro da una parte e il timore di perdere lettori e introiti pubblicitari dall’altra. Nel mezzo ci sono i giornalisti e un lavoro che sta perdendo addetti quotidianamente (nel Regno Unito i comunicatori sono in numero pari ai giornalisti attivi). In questo caso ha vinto la Champions, ha vinto l’editore: anche se il giornale non è uscito con la quotidiana qualità. Una vittoria di Pirro, obbligata dalla grande offerta che oggi un tifoso può trovare, tra siti Internet e televisioni straniere. Ed è tutto questo insieme che riduce quasi a zero il potere contrattuale dei giornalisti, perché i media possono salvare il calcio, anzi lo hanno reso ultramiliardario (seppur con casi e paradigmi differenti da Paese a Paese) con i diritti televisivi, ma il calcio così come lo conosciamo e viene raccontato oggi non salverà più giornali e giornalisti.

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Il professore del fair play

La nonna Tosca di Firenze, il nonno Paolo di Santa Croce sull’Arno, entrambi tifosi della Fiorentina non sono bastati per contagiarlo, ma le radici di Paolo Ciabattini sono qui. Toscano d’elezione è nato a Milano l’1 marzo 1965 con una passione naturale per i numeri, sin dalle elementari. La prima partita? Juventus-Fiorentina, finale di un torneo giovanile che si giocò nel capoluogo meneghino: «Vinsero i viola ai rigori e ricordo che in porta c’era Mattolini». Massimo vinse la Coppa Italia e la Coppa di Lega Italo-Inglese nel 1975, terminando la carriera a Catania nel 1987.

Laureato alla Bocconi in Economia e commercio, ha lavorato per Ernst & Young, network mondiale di servizi professionali di revisione e organizzazione contabile, fiscalità, transaction e advisory, poi è passato a Pioneer dove ha ricoperto vari ruoli, da direttore operativo a finanziario, a direttore del personale. Oggi è consulente Uefa per il benchmarking, che significa parametrare le performance di un’azienda o di una divisione rispetto a quella di altre aziende o altre divisioni, prese come punti di riferimento, in questo caso le squadre di calcio europee.

«Non sono mai riuscito ad apprezzare un club solo per i risultati sportivi, la mia natura mi portava a considerare anche quelli economici e ad ammirare quelle società che riuscivano a coniugare i primi con i secondi, o meglio i secondi con i primi», per questo ha scritto un libro di grande successo «Vincere con il fair play finanziario» (Il Sole 24 Ore Libri): «Quando Michel Platini l’ha istituito (entrando in vigore nel 2011, ndr) sono rimasto colpito perché erano gli stessi concetti che personalmente portavo avanti da tanti anni, non sono mai stato capace a separare l’impatto tecnico e sportivo di un calciatore da quello economico, così quando l’Uefa ha normato l’idea che si dovesse raggiungere il pareggio di bilancio grazie alle risorse che una società è capace di generare da sola un mio amico mi ha dato l’idea di scrivere questo libro», frutto di trentacinque notti milanesi insonni durante un’estate molto calda. Il primo sull’argomento in Europa che ha avuto un notevole impatto sul tema, tanto che l’Uefa se n’è ricordata e l’ha ingaggiato come consulente.

«Ciò che apprezzo di più del fair play finanziario è evitare che alle differenze esistenti per fatturato, bacini, importanza del brand e vittorie conseguite nei primi cento anni di storia del calcio vi si aggiungessero anche quelle dovute agli interventi dei mecenati. Squadre come l’Inter, ad esempio, a un fatturato di 200 milioni di euro aggiungevano perdite di bilancio che rappresentavano più del quadruplo dei costi della Fiorentina e questo non lo trovavo giusto».

«Se da una parte – spiega Ciabattini – il FFP (Financial Fair Play, ndr) ha ridotto questo gap però impedisce di colmarne altri. Oggi ci sono club con fatturati intorno ai 600 milioni, come Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco e Manchester United, subito dietro Chelsea, Juventus, Manchester City e Psg che non potranno mai raggiungerli senza realizzare perdite di bilancio attualmente impedite dal FFP». E la Fiorentina? «Secondo il mio parere fa miracoli competendo con squadre che hanno il doppio del suo fatturato, Inter e Roma, più del doppio, Milan, e più del triplo, Juventus. L’undici titolare della Viola è costato meno di Dybala, non posso che fare i complimenti alla dirigenza. Capisco l’umore dei tifosi alla luce degli ultimi risultati, ma la Fiorentina, ancora in lotta per lo scudetto e in corsa per l’Europa League, rappresenta la migliore sintesi tra qualità e costi, mostrando per alcuni mesi il calcio più bello della serie A».

Poi ci sarebbe la questione stadio di proprietà che a Firenze, da molti punti di vista, è un argomento più che mai spinoso: «Il Franchi ha una capienza poco superiore ai 46.000 spettatori, uno stadio nuovo potrebbe rimanere anche sui 40.000 o confermare quelli attuali e portare nelle casse della Fiorentina circa 10-15 milioni l’anno, raddoppiando il fatturato alla voce match day. Bisogna, però, dire che un nuovo impianto costerebbe intorno ai 150 milioni di euro, recuperabili in dodici, tredici, anni, un impegno economico non trascurabile. Per l’attaccamento alla squadra i fiorentini lo meriterebbero, inoltre rappresenterebbe la casa del club in un Paese dove oltre il 50% dei ricavi è alla voce diritti televisivi». È abbastanza chiaro che per riuscire a recuperare la spesa più velocemente ci vorrebbe pure la cittadella intorno con negozi e alberghi, altrimenti la proprietà si potrebbe rifare dei soldi spesi solo in caso di vendita del club.

Per i tifosi di calcio, della Fiorentina in particolare, è un po’ come leggere «La solitudine dei numeri primi», difficile capire l’importanza del bilancio quando si siede in curva o in altri settori dell’Artemio Franchi e si canta a squarciagola l’amore per la propria squadra e la propria città, ma al tempo stesso è improbabile pensare che il calcio possa fare un passo indietro: «Il business nel football – conferma Paolo Ciabattini – è una tendenza impossibile da arrestare. Il fatturato delle squadre europee aumenta sempre di più, trainato dai diritti televisivi, raddoppiati addirittura quelli della Premier League. Senza dimenticare che il FFP ha ridotto le perdite del calcio continentale da un miliardo e settecento milioni di euro a poco più dei 400 di adesso».

Nel frattempo stanno prendendo piede anche i trust dei tifosi, seppur nelle categorie minori: «In Lega Pro e in serie D credo sia fattibile, di sicuro un board allargato non avrebbe gli isterismi del mecenate che prende decisioni sull’onda dell’emozione, ci sarebbero risoluzioni più collegiali. Importante è mettere figure professionali adeguate nei posti giusti».

«Cos’è mancato al calcio italiano in questi ultimi anni? Una governance preparata, sia a livello istituzionale che di club. Non è stato valorizzato come si doveva il prodotto serie A, non si sono costruiti stadi di proprietà quando c’erano i soldi per farli e ci siamo adagiati sui diritti televisivi». Nel frattempo ci sono molte cassandre che prevedono la fine del FFP, ma sta funzionando? «A giudicare dalla diminuzione delle perdite di bilancio dei club di massima divisione delle 54 leghe europee direi proprio di sì». Mentre Firenze e la Fiorentina sognano un presente e un futuro da protagonisti nel calcio italiano e continentale: «Nel 2015 dovrà realizzare un utile di almeno 6 milioni per pareggiare la perdita aggregata del biennio precedente e rimanere così all’interno della perdita massima di 30 milioni, consentita dalla normativa del FFP in riferimento al triennio 2013-15. E poi c’è quel Bernardeschi che è molto forte e ha già richieste importanti. La società è stata molto brava in questi anni con le plusvalenze». Firenze lo sa, aspetta e spera.

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Il calcio in mezzo alle bombe

Rizgar Mustafa è il direttore della scuola francese di Souleimaniye, città del Kurdistan iracheno, vicino al confine con l’Iran. Antico peshmerga ha sempre giocato a pallone, nel quartiere Khabat (che significa «Lotta»), di fronte alle milizie di Saddam Hussein e nel parco Azadi, dove qualche anno più tardi il regime costruì la prigione per torturare gli oppositori politici e la resistenza kurda. Dal 1986 al 1990 ha combattuto in montagna: «Durante quei giorni due cose erano importanti per noi, il calcio e i libri. Eravamo una banda di diciotto ragazzi, abbiamo giocato e lottato, undici sono morti». Nell’estate del 2014, grazie a un comune amico francese, ha regalato a Carlo Ancelotti, allora allenatore del Real Madrid, un paio di klash, le scarpe tradizionali kurde, immortalandolo poi col cellulare.

Ecco, se c’è una cosa che la guerra contro l’Isis, pur tra milioni di difficoltà, non solo logistiche, non è riuscita a scalfire, questa è l’amore per il calcio. E se nei campi polverosi del Kurdistan si continua a giocare, nei bar si guardano le partite dei campionati europei, Champions compresa. C’è chi tifa Real Madrid, chi Barcellona, ma nessuno osa andare oltre lo sfottò, fuori dalla porta c’è la guerra vera, il calcio resta passione, sport, divertimento, qualcosa che ti può sollevare lo spirito per due ore, prima d’imbracciare nuovamente il fucile e tenere la linea del fronte occidentale (perché questo rappresenta oggi il Kurdistan) contro i soldati dello Stato Islamico.

Erbil, in questo senso, è la capitale del football kurdo. L’Erbil Sport Club, vincitrice di ben quattro campionati negli ultimi anni, la squadra che prende il nome dalla città e aspira a vincere la Champions League asiatica. Rispetto ad altri luoghi qui le misure di sicurezza sono più blande, nonostante nessuno abbia dimenticato gli anni della dittatura irachena e la guerra civile tra il PDK, Partito democratico kurdo, e l’UPK, Unione patriottica kurda. Qui giocavano tre spagnoli, Victor Manuel, Rubyato Borja e Jorji Gotor, ma nel luglio del 2014 se ne sono andati, quando l’Isis ha conquistato Makhmour, a soli cinquanta chilometri a sud ovest della città. Una perdita importante, soprattutto per le ambizioni internazionali della squadra, ma sembra che il vero motivo della loro partenza sia stato prettamente economico, nonostante le promesse di non diminuirgli lo stipendio. A Erbil c’è pure una formazione femminile, l’Hawler Women Sport Club, completamente accettata, anche se gioca sul campo d’allenamento dei maschi o al chiuso, in un Paese dove le donne impugnano il kalashnikov possono tranquillamente giocare a calcio.

La guerra cambia gli uomini, i luoghi, e colpisce l’economia. Difficile in Kurdistan ingaggiare oggi giocatori stranieri, europei, perché da Bagdad hanno tagliato i fondi. All’inizio, infatti, i kurdi gestivano direttamente il commercio di petrolio con la Turchia e i petroldollari finanziavano tante cose, squadre comprese. Ma lo scorso anno, Nouri al-Maliki, vice presidente della Repubblica irachena, ha fermato questo mercato e smesso di pagare i funzionari kurdi, senza contare che hanno dovuto fare di necessità virtù anche nella guerra, sempre più sanguinosa, contro l’Isis. Di fronte all’inettitudine dell’esercito iracheno hanno deciso di difendersi da soli e difendere la popolazione, il Kurdistan al momento accoglie più di un milione e duecentomila migranti e rifugiati siriani. In queste condizioni pensare di finanziare il football è fuori da ogni logica.

«I club come quelli di Erbil e Dohuk negli anni passati hanno fatto degli investimenti immobiliari e sicuramente reggeranno a questa crisi meglio di altri», sottolinea Sertip Fariq, che lavora alla direzione generale degli sport. «Bagdad non si comporta bene con noi, lo sport, il calcio, senza soldi non si può fare e non è altrettanto vero per le squadre irachene che continuano a ricevere finanziamenti, oltretutto quando giochiamo contro ci fischiano e ci insultano. Eppure se oggi l’Isis ha interrotto la sua avanzata, se non ha conquistato tutto l’Iraq, è merito nostro e di nessun altro», afferma con rabbia Safin Kanabi, presidente della Federazione kurda.

Kirkuk l’Isis ce l’ha di fronte, dopo essere stata contesa tra iracheni e kurdi, con una popolazione a maggioranza kurda (70%). Quando è iniziata la guerra contro lo Stato Islamico è diventata una città fantasma, ma con la resistenza le cose sono un po’ cambiate e la vita è tornata a scorrere per le sue strade. Così anche il calcio con il Kirkuk FC che vanta tra le sue file il nigeriano Sanday, meglio conosciuto come “La Tigre”, indeciso se restare o partire, nonostante l’amore dei tifosi e della gente. A 23 anni aveva un contratto da 10.000 dollari, impossibile da mantenere tra bombe e carenza di cibo: «Se avrò una proposta migliore me ne andrò, sta nelle cose – dice Sanday –, ma io sto bene, ho guadagnato la fiducia di queste persone. Iraq o Nigeria? In questo momento c’è poca differenza, puoi morire ovunque e sempre per colpa dello stesso terrorismo». Lo stipendio è di 9 dollari, una volta preso si pensa alla grigliata per stare tutti insieme e, se possibile, dimenticare per un momento la guerra. Giocare per non morire dentro per sempre.

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Il maresciallo antidoping

Depenalizziamo il doping, no azzeriamo i record. Questo è, più o meno, il tono delle conversazioni che si sentono intorno a uno dei fenomeni peggiori che infettano e infangano lo sport professionista, nonché amatoriale, italiano e internazionale. E non parliamo solamente di alterazione dei risultati e delle competizioni sportive, ma anche di salute, fisica e, alla lunga, mentale di chi fa uso di sostanze dopanti. Una lotta difficile, a volte impari, perché i cattivi maestri del doping, le loro ricerche e i loro sotterfugi sembrano stare sempre un passo avanti chi cerca di fermarli e bandirli per sempre dal mondo sportivo.

In Italia è entrato in fase esecutiva l’accordo tra Arma dei Carabinieri e Coni che ha dato vita alla NADO (National Anti-Doping Organisation) italiana su protocolli WADA, l’agenzia mondiale antidoping: «I Nas – ha dichiarato in quell’occasione Tullio Del Sette, Generale Comandante dei Carabinieri –, insieme alle sezione antidoping del Coni, lavoreranno per prevenire e reprimere il malaffare. Non solo a livello agonistico ma anche amatoriale. I controlli saranno effettuati nell’ambito di un ampio monitoraggio, in base ai dettami della WADA». I Nas, che dipendono dal ministero della Salute, sono la prima forza di polizia ad aver stretto una collaborazione stile Interpol con l’agenzia.

Renzo Ferrante, classe 1969, è nativo di Montevarchi. Nell’Arma dal 1987, dopo la Scuola Sottufficiali ha prestato servizio in Piemonte fino al ’94 allorché approda ai Nas, prima a Bologna e dal 2000 a Firenze; dal 2011 nel gruppo di lavoro WADA che è stato propedeutico all’accordo: «Per combattere il fenomeno serve una sinergia internazionale più efficace possibile. In Italia esisteva già la legge 401 dell’89 sulla frode sportiva, ma servono mezzi per indurre gli altri stati a dotarsi di simili strumenti legislativi», afferma Ferrante. Si tratta di mettere insieme il know-how di entrambe le parti in modo che le conoscenze dell’agenzia possano aiutare le investigazioni e queste possano, a loro volta, mandare un feedback alla stessa in termini di nuove sostanze da inserire nella lista dei proibiti.

«Un esempio di questa cooperazione è stata l’operazione Underground che nel 2015 ha colpito a livello mondiale centinaia di laboratori clandestini per la produzione di anabolizzanti – ricorda il Luogotenente –, la quale ha coinvolto 27 Paesi, guidata dalla Dea statunitense e coordinata dall’Europol», una lotta senza quartiere contro metodi sempre più sofisticati in grado d’ingannare i controlli e di rendere difficile l’attività investigativa, quando spesso proprio da questa possono arrivare dritte per gli scienziati capaci di studiare le contromisure. Come quando, alcuni anni fa, fu scoperto un anoressizzante durante un’inchiesta che poi è stato inserito nelle liste WADA. La differenza la fanno poi le leggi dei singoli stati, in Italia, per esempio, il doping è sia illecito sportivo che reato penale grazie alla legge 376 del 2000.

Pure in Francia lo è, in Spagna da poco, così come lo sta diventando in Germania: «Vediamo che l’orientamento attuale – sottolinea Renzo Ferrante – si avvicina di più alla legge italiana, anche se ci sono correnti di pensiero contrastanti. Si dice: non si punisce penalmente chi assume stupefacenti lo si fa contro chi assume sostanze dopanti. Entrambi danneggiano la propria salute, ma nel secondo caso si cerca di tutelare l’etica sportiva e la regolarità delle gare insieme. In Svizzera alcuni giuristi tedeschi avevano messo in dubbio questo punto di vista, gli ricordai che come nelle combine il doping altera i risultati sportivi e crea un danno economico a chi segue, a chi scommette e a chi sponsorizza lo sport». La storia, però c’insegna che finché la domanda è sostenuta, e lo è, il fenomeno non scompare semmai muta: «Il miraggio di sfondare attraverso una scorciatoia, questa è la molla, ma chi lo fa dimentica che alla fine gli sportivi ricchi sono pochi rispetto alla base. Dove non c’è il motore sportivo c’è quello estetico a muovere milioni di euro per l’acquisto di anabolizzanti, collegati al modello percepito di una forma fisica accettabile».

È un problema educativo, perché la pena, lo dimostra la società in cui viviamo, di per sé non è un deterrente così forte, serve a punire ma non a prevenire: «Io non commento l’entità delle pene o le richieste che vengono da più parti di radiazione dello sportivo, non mi spetta. Una cosa, però, è chiara: per combattere il doping dobbiamo remare tutti dalla stessa parte, dai genitori a chi allena i ragazzi nei vari sport», perché se chi li allena viene da una storia di pratiche illecite continuerà a perpetrare un’incultura sportiva inaccettabile, quindi serve pure un ricambio generazionale nei gangli delle varie discipline. Senza contare che i controlli antidoping durante le manifestazioni sportive hanno scarsa efficacia, visto che è durante gli allenamenti che andrebbero fatti, ecco l’importanza del passaporto biologico, che esiste già nel ciclismo e nell’atletica leggera: «Grazie all’aiuto farmacologico si possono sopportare carichi di lavoro maggiori, inoltre chi studia sostanze dopanti più sofisticate studia anche come poterle eliminare prima di una gara. Il controllo urinario resta quello basico, va ripetuto nel tempo per tracciare un profilo biologico dell’atleta. A volte le finestre per scoprire se uno si è dopato oppure no sono di 8-12 ore dopodiché il metabolita viene espulso e non lascia più traccia».

Renzo Ferrante ha preso parte a decine d’inchieste, tra queste le più famose sono state «Quadrifoglio» (Giro d’Italia 2001), «Oil for Drugs», «Giallo Viola» (sui morti della Fiorentina), «Puerto Connection» (legata alla spagnola «Operacion Puerto»), l’ultima Olimpia nel 2014. Nell’utilizzo di sostanze dopanti, a tutti i livelli, c’è un corto circuito delle dinamiche sociali, aggirare l’ostacolo, prendere scorciatoie per raggiungere la meta, con motivazioni di natura economica e umana. Quello, però, che forse molti ragazzi e genitori non sanno è che se sono testimoni o hanno qualche dubbio possono rivolgersi ai Nas: «Siamo qui per questo», dice il Luogotenente Renzo Ferrante.