Sognando Beckham
Può il calcio riuscire lì dove diplomazia, politica, economia e società falliscono? Difficile dare una risposta, soprattutto da queste colonne, ma l’argomento che affrontiamo ci porta, per forza di cose, a trattare temi che sfiorano lo sport, come strumento d’integrazione, e che ci sfiorano quotidianamente, distraendoci labilmente dalla quotidianità. La nostra storia arriva da Blackburn, Lancashire, Nord Ovest dell’Inghilterra, centro chiave durante la rivoluzione industriale di un secolo fa per il tessile, oggi conta 105.000 abitanti e una povertà diffusa che si tocca con mano. Qui la comunità islamica è una presenza storica, come a Bradford o Dewsbury, in un Paese che ha fatto del multiculturalismo e dell’integrazione la propria bandiera per decenni. In realtà la Brexit ha dimostrato che Londra è una cosa e il resto dell’Inghilterra un’altra e che esiste una percezione diversa del mondo a seconda delle generazioni, ma questo lo sapevamo già. In Gran Bretagna i musulmani sono 2,8 milioni, il gruppo religioso più importante dopo i cristiani, ma secondo molti il modello d’integrazione va ripensato.
Un rapporto redatto dalla funzionaria Louise Casey ha messo in luce «pratiche religiose eversive che andrebbero fermate», «negazione dei diritti fondamentali, soprattutto delle donne», «quartieri islamizzati dove ogni giorno risuona il richiamo del muezzin». Il rapporto è stato voluto dall’ex premier David Cameron, per capire il retroterra dei foreign fighters nati e cresciuti in Inghilterra. Blackburn è uno di questi con zone dove la popolazione musulmana raggiunge l’85 per cento. La reazione più delicata rispetto a questa fotografia arriva dai vescovi cattolici che rivedono nel fenomeno attuale quello che hanno vissuto gli irlandesi arrivati su queste terre agli inizi del Novecento. Mettendo a disposizione parrocchie e scuole per inserire nella vita britannica persone provenienti da vari Paesi, con 26.000 alunni musulmani iscritti negli istituti gestiti dalla Chiesa cattolica. Una prima, importante, risposta.
La seconda arriva proprio da Blackburn, famosa per i Rovers che hanno vinto una Charity Shield, sei FA Cup, una Coppa di Lega e tre campionati inglesi, l’ultimo nel 1995 con Alan Shearer capocannoniere (34 gol). Qui nel 2013 è nata la Abu Hanifah Foundation che ha messo in piedi un progetto sportivo innovativo rivolto ai ragazzi e alle ragazze, Saarah Patel, dieci anni, è una di queste: «Alcune persone pensano che sia strano vedere delle ragazze giocare a pallone, ma perché il divertimento dovrebbe essere riservato ai ragazzi?». Parole che sono macigni gettati dentro le abitudini di una comunità che fatica a integrarsi e anche a guardarsi allo specchio.
I problemi principali che gli organizzatori hanno riscontrato negli altri settori giovanili sono di vario genere: il rapporto tra staff tecnico e genitori, il rapporto tra il primo e i ragazzi (troppe urla, troppa pressione agonistica), l’assenza di ragazze. Inoltre, all’interno della comunità musulmana c’è un problema d’integrazione che divide pakistani, indiani e bengalesi, con attriti storici e non di poco conto. Muhamed Asif, dodici anni, è un punto di riferimento per i suoi coetanei e attraverso il calcio ha trovato la serenità dopo essere stato vittima di bullismo a scuola: «Adesso siamo amici per la pelle, è accaduto quando abbiamo iniziato a giocare a pallone nella stessa squadra. Prima, al parco, gli altri ragazzi non volevano che giocassi insieme a loro, nel frattempo sono migliorato grazie agli allenamenti e nessuno mi rifiuta più».
Lo staff tecnico è misto, con molti giovani inglesi tra cui due ragazze, un buon modo per fare integrazione, insieme con i tornei, sia all’interno della comunità musulmana che contro squadre autoctone, per misurarsi e misurare. C’è poi un approccio molto cordiale con le famiglie, fatto di tè, caffè e pasticcini, mentre i ragazzi e le ragazze si allenano o giocano le partite. Un modo per socializzare e fare due chiacchiere vicino ai propri figli, ma lontani dal campo, per appoggiare ma non interferire. Zuber Patel, capo dello staff tecnico illustra la filosofia dell’Abu Hanifah Foundation, presieduta dallo sceicco Imtiyaz Damiel: «Incoraggiamo i nostri calciatori a essere creativi e lavoriamo molto con la palla. Il ruolo dei genitori? Sostenere senza essere eccessivamente coinvolti». Samina Ali guarda suo figlio Muhammad: «Sono così contenta, è una gioia vederlo mescolarsi con ragazzi provenienti da tutto il mondo, senza barriere e divisioni. Da quando ha iniziato a giocare ha acquistato fiducia in se stesso, è cresciuto fisicamente e adesso ha una passione». Nel 2015 ha vinto l’FA Respect Award e adesso sono circa 300 i bambini e i ragazzi, maschi e femmine, di varie etnie, che giocano nelle rappresentative dell’AHF FC.
Zuber Patel è molto soddisfatto: «Adesso tanti altri club stanno seguendo il nostro esempio, sia per una migliore integrazione con la società britannica, ma anche tra noi asiatici e musulmani». Sognando Beckham si può cambiare il mondo? Lo scopriremo un allenamento dopo l’altro, prima sul campo, poi dentro di noi.