Il calcio in mezzo alle bombe
Rizgar Mustafa è il direttore della scuola francese di Souleimaniye, città del Kurdistan iracheno, vicino al confine con l’Iran. Antico peshmerga ha sempre giocato a pallone, nel quartiere Khabat (che significa «Lotta»), di fronte alle milizie di Saddam Hussein e nel parco Azadi, dove qualche anno più tardi il regime costruì la prigione per torturare gli oppositori politici e la resistenza kurda. Dal 1986 al 1990 ha combattuto in montagna: «Durante quei giorni due cose erano importanti per noi, il calcio e i libri. Eravamo una banda di diciotto ragazzi, abbiamo giocato e lottato, undici sono morti». Nell’estate del 2014, grazie a un comune amico francese, ha regalato a Carlo Ancelotti, allora allenatore del Real Madrid, un paio di klash, le scarpe tradizionali kurde, immortalandolo poi col cellulare.
Ecco, se c’è una cosa che la guerra contro l’Isis, pur tra milioni di difficoltà, non solo logistiche, non è riuscita a scalfire, questa è l’amore per il calcio. E se nei campi polverosi del Kurdistan si continua a giocare, nei bar si guardano le partite dei campionati europei, Champions compresa. C’è chi tifa Real Madrid, chi Barcellona, ma nessuno osa andare oltre lo sfottò, fuori dalla porta c’è la guerra vera, il calcio resta passione, sport, divertimento, qualcosa che ti può sollevare lo spirito per due ore, prima d’imbracciare nuovamente il fucile e tenere la linea del fronte occidentale (perché questo rappresenta oggi il Kurdistan) contro i soldati dello Stato Islamico.
Erbil, in questo senso, è la capitale del football kurdo. L’Erbil Sport Club, vincitrice di ben quattro campionati negli ultimi anni, la squadra che prende il nome dalla città e aspira a vincere la Champions League asiatica. Rispetto ad altri luoghi qui le misure di sicurezza sono più blande, nonostante nessuno abbia dimenticato gli anni della dittatura irachena e la guerra civile tra il PDK, Partito democratico kurdo, e l’UPK, Unione patriottica kurda. Qui giocavano tre spagnoli, Victor Manuel, Rubyato Borja e Jorji Gotor, ma nel luglio del 2014 se ne sono andati, quando l’Isis ha conquistato Makhmour, a soli cinquanta chilometri a sud ovest della città. Una perdita importante, soprattutto per le ambizioni internazionali della squadra, ma sembra che il vero motivo della loro partenza sia stato prettamente economico, nonostante le promesse di non diminuirgli lo stipendio. A Erbil c’è pure una formazione femminile, l’Hawler Women Sport Club, completamente accettata, anche se gioca sul campo d’allenamento dei maschi o al chiuso, in un Paese dove le donne impugnano il kalashnikov possono tranquillamente giocare a calcio.
La guerra cambia gli uomini, i luoghi, e colpisce l’economia. Difficile in Kurdistan ingaggiare oggi giocatori stranieri, europei, perché da Bagdad hanno tagliato i fondi. All’inizio, infatti, i kurdi gestivano direttamente il commercio di petrolio con la Turchia e i petroldollari finanziavano tante cose, squadre comprese. Ma lo scorso anno, Nouri al-Maliki, vice presidente della Repubblica irachena, ha fermato questo mercato e smesso di pagare i funzionari kurdi, senza contare che hanno dovuto fare di necessità virtù anche nella guerra, sempre più sanguinosa, contro l’Isis. Di fronte all’inettitudine dell’esercito iracheno hanno deciso di difendersi da soli e difendere la popolazione, il Kurdistan al momento accoglie più di un milione e duecentomila migranti e rifugiati siriani. In queste condizioni pensare di finanziare il football è fuori da ogni logica.
«I club come quelli di Erbil e Dohuk negli anni passati hanno fatto degli investimenti immobiliari e sicuramente reggeranno a questa crisi meglio di altri», sottolinea Sertip Fariq, che lavora alla direzione generale degli sport. «Bagdad non si comporta bene con noi, lo sport, il calcio, senza soldi non si può fare e non è altrettanto vero per le squadre irachene che continuano a ricevere finanziamenti, oltretutto quando giochiamo contro ci fischiano e ci insultano. Eppure se oggi l’Isis ha interrotto la sua avanzata, se non ha conquistato tutto l’Iraq, è merito nostro e di nessun altro», afferma con rabbia Safin Kanabi, presidente della Federazione kurda.
Kirkuk l’Isis ce l’ha di fronte, dopo essere stata contesa tra iracheni e kurdi, con una popolazione a maggioranza kurda (70%). Quando è iniziata la guerra contro lo Stato Islamico è diventata una città fantasma, ma con la resistenza le cose sono un po’ cambiate e la vita è tornata a scorrere per le sue strade. Così anche il calcio con il Kirkuk FC che vanta tra le sue file il nigeriano Sanday, meglio conosciuto come “La Tigre”, indeciso se restare o partire, nonostante l’amore dei tifosi e della gente. A 23 anni aveva un contratto da 10.000 dollari, impossibile da mantenere tra bombe e carenza di cibo: «Se avrò una proposta migliore me ne andrò, sta nelle cose – dice Sanday –, ma io sto bene, ho guadagnato la fiducia di queste persone. Iraq o Nigeria? In questo momento c’è poca differenza, puoi morire ovunque e sempre per colpa dello stesso terrorismo». Lo stipendio è di 9 dollari, una volta preso si pensa alla grigliata per stare tutti insieme e, se possibile, dimenticare per un momento la guerra. Giocare per non morire dentro per sempre.