Heysel, le verità di una strage annunciata

Trent’anni dopo.

Ricordo ancora quella sera e i giorni seguenti il 29 maggio 1985. Un ricordo violento, perché quello che accadde cambiò per sempre il mio essere ragazzo, tifoso, e ha cambiato anche il giornalista che sono diventato. L’Heysel è una cicatrice che fa male ancora oggi e che non se ne vuole andare, forse proprio perché in troppi hanno cercato di cancellarla, ma non c’è cura. Anzi, una ci sarebbe: la memoria, una memoria condivisa che dovrebbe avere (ha) come assioma l’unica verità storica e processuale riconosciuta (perché dimostrata e dimostrabile) dall’«Associazione fra i familiari delle vittime dell’Heysel», presieduta da Andrea Lorentini che a Bruxelles perse il padre Roberto, giovane medico aretino medaglia d’argento al valor civile per essere morto mentre tentava di salvare un connazionale.

«Abbiamo sconfitto l’Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza, ma in troppi se la sono cavata», mi ha detto Otello Lorentini prima di soccombere sotto gli acciacchi della vecchiaia e morire lo scorso maggio. Lui che le udienze del processo di Bruxelles se l’è fatte tutte, lui che prendeva l’aereo da Roma, lui che cercava i giornalisti per informarli di quanto stava accadendo. Un processo per iniziare il quale i familiari delle vittime italiane si sono autotassati. Otello Lorentini – nonno di Andrea e padre di Roberto – fondò la prima Associazione per avere giustizia di fronte a una strage in cui tutti volevano farla franca: gli hooligans inglesi come l’Uefa, come le istituzioni sportive e politiche belghe. Otello ha fatto meno fatica a portare avanti il processo che non il ricordo di quella sera. La paura era che le 39 vittime fossero uccise una seconda volta dall’ignavia, spesso in malafede, di un Paese che preferisce rimuovere le tragedie. Soprattutto per questo ha litigato spesso, a distanza, con Giampiero Boniperti, ricambiato. Perché, come mi ha detto Antonio Conti (che ha perso la figlia diciassettenne Giuseppina), guardandomi negli occhi: «è dura, sono contento che se ne parli ancora, ma il dolore non se ne va».

In questi trent’anni non si è dimenticata solo la strage, ma anche la solitudine, la dignità e la forza con cui i familiari delle vittime sono andati avanti: «Mi hanno detto che m’avevano pagato il marito morto, che la macchina (che avevo anche prima) me l’ero comprata con quei soldi – ricorda Rosalina Vannini vedova di Giancarlo Gonnelli –. Nessuno sa cosa ha significato andare avanti senza Giancarlo e con tutti i problemi che ha avuto Carla (la figlia, ndr)», che dell’Heysel non vuole ancora parlare.

E allora cosa ci resta di quella vicenda, di quella battaglia condotta in solitudine da 32 famiglie italiane che si sono fatte forza nella figura di un uomo che aveva perso l’unico figlio per una partita di calcio e che non si dava pace? Sicuramente la condanna dell’Uefa, passata anch’essa sotto i tacchi di una certa inconsistenza giornalistica, che l’ha resa, per sempre, corresponsabile delle manifestazioni che organizza. Se gli stadi delle finali delle Coppe europee devono avere determinati requisiti di sicurezza (con biglietti nominali, dotati di microchip) non lo si deve certo all’evoluzione del calcio, bensì alla testardaggine di Otello Lorentini e allo choc di vedere tutti gli imputati assolti in Primo grado. Così decise, insieme con gli altri familiari delle vittime italiane, di citare direttamente l’Uefa, che è stata condannata in Appello e in Cassazione.

Non tutti sanno che in Inghilterra, ancora oggi, è al lavoro una commissione d’inchiesta per stabilire le vere cause di un’altra strage, quella dell’Hillsborough Stadium di Sheffield, dove il 15 aprile 1989 morirono 96 tifosi del Liverpool. Quella che poi ha dato il via ai grandi cambiamenti che fanno della Premier League il campionato televisivamente più affascinante e il più sicuro dal punto di vista degli impianti. Disorganizzazione e inadeguatezza delle forze di polizia sono alcune delle cause, forse le più importanti, ma questo lo stabilirà l’inchiesta. Sono passati 26 anni. Ecco, se avessero imparato la lezione del 29 maggio 1985, se avessero riflettuto invece di respingere le accuse e cercare di nascondere la vergogna di quello che, in concorso, avevano fatto all’Heysel, forse Hillsborough sarebbe rimasto solo il nome di uno stadio.

In Italia, se possibile, è andata anche peggio. Nel 1995, per il decennale, a Otello Lorentini promettono una puntata del Processo del Lunedì ad Arezzo, ma poi non se ne farà niente. Nel 2010 la prima messa della Juventus, che con la presidenza di Andrea Agnelli ha intrapreso, con difficoltà, un cammino verso i familiari delle vittime. Dietro 25 anni di vuoto. «Ho ricevuto l’invito ma non andrò, ognuno ha la sua coscienza» mi disse Maria Teresa Dissegna, che all’Heysel ha perso il marito Mario Ronchi, uno dei tre interisti morti a Bruxelles. Abbandono, fastidio, oblio, questo hanno continuato a subire i familiari delle vittime e coloro che sono morti il 29 maggio 1985, insieme alle continue offese negli stadi italiani, quasi mai sanzionate: «In tutti questi anni la Procura federale non mi è sembrata così pronta e attenta», mi ha confidato Andrea Lorentini.

La memoria va allenata per non dimenticare, perché non accada mai più. Grazie a Otello Lorentini, Domenico Laudadio, Annamaria Licata, Claudio Il Rosso, il Nucleo 1985, lo Juventus Club Supporters Juve 1897, il Comitato “Per non dimenticare Heysel” Reggio Emilia, Andrea Lorentini, che ha la stessa stoffa del padre e la stessa tenacia del nonno, e a tutti gli altri famigliari che meritano (glielo dobbiamo, glielo dovete!) dopo 30 anni che si parli dell’Heysel con cognizione di causa, senza edulcorazioni, ipocrisie di parte e interessi economici. Anche per questo vado fiero della scritta che posso esibire sul mio libro “Heysel, le verità di una strage annunciata”: «L’unico libro ufficialmente riconosciuto dall’Associazione familiari vittime Heysel». Sperando che chi ha ancora voglia di raccontare quello che è accaduto trent’anni fa faccia finalmente i conti con le famiglie delle vittime, stranamente dimenticate in tanti libri e documentari. Li sentite? Stanno sussurrando qualcosa: «La storia (dell’Heysel) siamo noi, nessuno si senta offeso».

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