Premier League, l’Nba del calcio grazie ai diritti televisivi
Corea del Nord e Albania, dove chi può pirata il segnale dalla Grecia, sono gli unici due Paesi al mondo che non vedono la Premier League. Con una differenza importante, in Inghilterra la televisione trasmette solo anticipi e posticipi, mentre all’estero si vedono tutte le partite. Allora fa ancora più impressione la cifra che i club inglesi incasseranno dai diritti televisivi nel triennio 2016-19 che è attualmente di 7,25 miliardi di euro e ancora non sono stati venduti quelli per trasmettere i match fuori dal Regno Unito. Nel quinquennio 1992-97 erano di 270 milioni di euro, sono diventati 1,7 miliardi nel triennio 2001-2004, 2,4 in quello 2007-10 e 4,25 per il 2013-16 (fonte, France Football). Una cascata di denaro che si riversa sulle società, poiché c’è una parte uguale per tutte (76,3 milioni di euro per la stagione appena conclusa), un’altra in base ai risultati sportivi e l’ultima secondo il numero di partite trasmesse. L’Aston Villa, per esempio, che si è classificato al diciassettesimo posto, ha ottenuto dai diritti televisivi 96,6 milioni di euro, il Barcellona dalla Champions League appena vinta, tutto compreso, ne ha ricavati 94,8.
“In Inghilterra sono stati i primi a investire molto sui diritti televisivi, senza Sky non sarebbe esistita la Premier League (capace di portare 106 calciatori all’ultimo Mondiale, ndr)”, ha detto al Foglio Luca Manes (autore di Made in England. Luci e ombre del football dei Maestri). “All’inizio degli anni Duemila c’era più equilibrio nelle entrate dei club con un 33% dalla biglietteria, 33% dal merchandising e 33% dai diritti televisivi, poi la forbice si è allargata e oggi grazie ai soldi delle televisioni una squadra come lo Stoke City può comprare giocatori più facilmente rispetto alla Roma”. Un mercato che, così com’è, secondo Manes spinge verso l’esterofilia a discapito dei talenti indigeni: “Se un giocatore inglese di pari livello costa di più alla fine si ripiega su quello straniero. Questo non toglie che ci sia un problema federale di formazione dei giovani calciatori. Da anni sento parlare di riorganizzazione dei vivai, ma la strada è ancora lunga”. Pippo Russo (che ha smascherato il ruolo dei fondi d’investimento nel calcio col libro Gol di rapina) propone un’altra chiave di lettura: “I club inglesi storicamente sono abituati a pagare esageratamente giocatori mediocri ed emerge un grande interesse a far circolare denaro all’estero”. Nel 2003 le squadre della Premier League hanno comprato calciatori provenienti da altri campionati per 176 milioni di euro su un totale di spesa di 303, nel 2007 per 352,1 su 662, nel 2013 691 su 888 milioni, più del 77%.
Tra Premier League, Championship e League One sono 29 i proprietari stranieri, di questi tre sono italiani: Cellino controlla il Leeds Utd, Pozzo ha il Watford (domiciliato in Lussemburgo) e Becchetti il Leyton Orient. Ufficialmente il sistema britannico non accoglie in casa i fondi d’investimento ma nulla impedisce di farci affari. Eliaquim Mangala, la scorsa estate, è passato dal Porto al Manchester City per 40 milioni di euro, il 33% dei quali è andato alla Doyen Sports Investments e il 10% alla Robi Plus dell’agente italo belga Luciano D’Onofrio, radiato dall’Uefa. Il City ha addirittura un proprio fondo d’investimento, quello che ha girato Correa alla Sampdoria dall’Estudiantes. Il Chelsea ha 70 giocatori in giro per l’Europa, comportandosi di fatto come un fondo, con società satelliti quali il Vitesse Arnhem e il Vitoria Setubal, città natale di José Mourinho: “Un modello capitalistico opaco e globale, tutt’altro che virtuoso” sottolinea Russo.
“Il Taylor report è stato determinante per rifare gli stadi, anche con finanziamenti pubblici, e ripensare il sistema calcio. Oggi ci sono impianti fotocopia, forse più brutti, meno immaginifici, ma quel passaggio (eliminazione hooligans compresa, ndr), è stato fondamentale. Qualcosa della tradizione è andato perso, come le terrace con i tifosi in piedi e l’atmosfera dell’FA Cup una volta insostituibile, oggi invece si schierano le seconde linee e si preferisce salvarsi o qualificarsi nelle coppe europee che vincerla, perché 4 milioni di sterline sono ben poca cosa rispetto al resto”, ha sottolineato Luca Manes. Come molti quarantenni ancora vive l’esperienza di andare allo stadio in Inghilterra cercando d’immaginarsi com’era trent’anni fa, ma è consapevole dei limiti del calcio inglese: “È un campionato spettacolare con valori tecnici alti, sottovalutato dai critici e sopravvalutato da chi deve venderne il prodotto televisivo, ci vorrebbe più equilibrio nei giudizi. Vero è che gli allenatori stranieri hanno snaturato la cifra tattica del torneo, importando un maggiore possesso palla, così come avere sempre le stesse quattro squadre (Arsenal, Chelsea, Manchester United e Manchester City, ndr) nei primi posti alla lunga potrebbe diventare un problema”. Tant’è che in molti si recano in Inghilterra per vedere partite di Championship e respirare (o immaginarsi) l’aura perduta.
La Champions League 2014-15 è stata una Waterloo per i club inglesi che non hanno raggiunto i quarti di finale, tanto da vedersi avvicinare nel Ranking Uefa dall’Italia. Ma, guardando indietro, vediamo che dal 2005 al 2009 hanno conquistato sempre la finale, nel 2008 col derby Manchester United-Chelsea, vincendola due volte, mentre l’ultima vittoria risale al 2012: Chelsea ai rigori sul Bayern Monaco. Negli anni Duemila sono sette le finali, con quattro squadre e tre vittorie, nel totale dodici coppe come l’Italia, seconda solo alla Spagna. Sono numeri da crisi? No, anche se il confronto con la prosperità del movimento fa affiorare dubbi e perplessità, perché se da una parte cresce la ricchezza dei club, al lordo delle spese e degli indebitamenti, dall’altra non cresce il calcio inglese nei suoi talenti e nell’espressione mainstream che, tra alti e bassi, è sempre stata la Nazionale. Risale al 2001 il Pallone d’Oro vinto da Michael Owen, al netto degli infortuni l’ultimo vero grande talento inglese. Di contro il Chelsea ha vinto la Youth League 2015 (la Champions League Primavera) e oltre il vivaio Arsenal non mancano giovani promettenti di talento come Jack Grealish (Aston Villa), Saido Berahino (West Bromwich Albion), Luke Shaw (Manchester United), Ryan Mason e Harry Kane (Tottenham Hotspur).
C’è il caro biglietti, che molte polemiche ha scatenato negli ultimi anni, ma gli stadi continuano a essere tutti pieni e l’Arsenal ha tifosi i quali pagano per stare nella waiting list che permetterebbe di accedere ad abbonamenti da 800 sterline: “Il business ha svenduto valori che sembravano intoccabili e alla fine il tifoso non esiste quasi più, meglio parlare di clienti da mungere il più possibile, con il rischio di vedere partite con atmosfere piatte”, ricorda Manes. Il Labour Party, invece, per motivi elettorali ha riproposto l’idea di riportare i tifosi in piedi con terrace moderne, come in Bundesliga, per ritrovare l’aura di un tempo e prezzi dei biglietti più bassi: “Forse qualcuno s’è perso tra critiche eccessive ed elogi sperticati, ma in Premier League ci sono porzioni dello stadio dove tutt’oggi i tifosi stanno in piedi; di fronte a 5.000 persone che cantano e incitano gli steward non possono fare niente”. Insomma c’è sempre un modello più bello da imitare, anche per il migliore dei campionati possibili, così come lo vedono all’estero. Di fatto quello inglese ha mantenuto un fascino che sembra non incontrare ostacoli. Lo spiega bene Pippo Russo: “La Premier League ha pensato se stessa come un campionato globale mentre gli altri ci stanno arrivando adesso, come tale ha costruito prodotto e spettacolo diventando l’Nba del calcio. Stadi pieni, diritti televisivi al top, sponsor e investitori provenienti da tutto il mondo. Mantenendo, a livello di racconto, brand e atmosfera e conquistando un vantaggio competitivo strutturato”. Storytelling applicato al business calcistico.