In tuffo contro i pregiudizi
L’area di rigore è un confine e può essere una prigione che improvvisamente spalanca le sue porte o le chiude per sempre al sogno, alla vittoria. Anche il corpo è un confine e può essere prigione, tra le peggiori, le cui chiavi risiedono nel cuore e nella mente, chiavi che aprono al mondo, alla libertà o che si spezzano dentro la serratura in una quotidiana sconfitta. Daniel è un ragazzo che ha attraversato più e più volte quel confine trasformandolo in un approdo, un faro che guarda orgoglioso l’Oceano e non teme di essere abbattuto dalla potenza delle onde, non più.
Daniel Priami è nato a Tel Aviv, in Israele, l’1 dicembre del 1988, dove i genitori livornesi, Bruno e Monica, avevano un locale. Ma il suo arrivo ha sparigliato le carte della vita e Livorno è diventata la sua casa dopo pochi respiri: «Sono livornese al cento per cento», ricorda con la sua voce profonda e simpatica. Il calcio nel sangue e all’età di nove anni gioca nel Livorno 9: «Ero troppo basso per stare in porta, a dire la verità lo sono rimasto sino all’adolescenza. Dopo due stagioni capitò l’occasione e da allora non mi sono più tolto i guanti». È bravo Daniel e promette bene, così nel 2003 passa ai Juniores Nazionali del Cecina, che militava in serie D. Sono giorni buoni e felici, giorni spensierati come quelli di ogni ragazzo che fa ciò che ama e ama ciò che fa. Ma in uno di questi, nel 2006, cambia tutto: «L’anno prima mi ero rotto il ginocchio, avevo recuperato bene e mi sentivo in forma, mi aspettava un grande campionato, ma in una delle prime partite salto per prendere un pallone alto, l’avversario fa un po’ di ponte e io frano a terra con la spalla».
Un infortunio bastardo ma recuperabile: «Sicuramente, pensavo, non sarà lungo come quello che avevo subito in precedenza». All’ospedale di Cecina ricompongono la frattura e lo ingessano, ma il braccio inizia a gonfiarsi e il dolore è sempre più forte, nonostante gli antidolorifici, arriva pure la febbre a 40 e dopo un ecodoppler lo mandano a Livorno in rianimazione: «Qui hanno cercato di salvarmi l’arto e ripulirlo, ma la setticemia era troppo grave e rischiava di compromettere il cervello», così gli amputano il braccio destro. Uno shock enorme, le porte della prigione che si chiudono all’improvviso senza sapere perché, senza capire, e un giovane portiere, un diciottenne, non sa più qual è il suo posto nel mondo: «Non provavo vergogna, ma avevo il timore di non essere accettato». I genitori e gli amici lo aiutano: «Non sono cambiati, mi trattavano come sempre e ho iniziato a giocare a calcetto. Per il resto ho dovuto imparare nuovamente tutto da zero, lavarmi, vestirmi, mangiare con la sinistra, non è stato facile».
E mentre Daniel si riaffacciava sul confine dell’area di rigore, la sua anima pensava ai pali della porta, un’utopia. Durante un viaggio in Spagna conosce Alessandra, che lavora per Trenitalia, quattro anni d’amore puro e una figlia in arrivo, si chiamerà Amelia, portando Daniel su terreni inesplorati. Poi un contatto su Facebook gli ha aperto le porte (è proprio il caso di dirlo) della Nazionale di calcio amputati: «Una realtà che non conoscevo, mi hanno detto che gli mancavano giocatori e che mi volevano come portiere. Ero titubante, ma Alessandra mi ha spinto e durante un raduno presso il centro Coni di Pisa ci siamo conosciuti», appena in tempo per disputare i Mondiali in Messico, dove c’è un campionato per club. La prima partita è contro i padroni di casa e l’Italia vince 2-0 davanti a 7.000 spettatori, alla fine sarà nona. Tutto il Centro America ha una tradizione in questa disciplina, vuoi per le guerre civili che hanno prodotto disabili in quantità industriali, tra cui molti ex calciatori: «In Inghilterra ci sono il Manchester City, il Chelsea, l’Arsenal, pure in Turchia c’è un bel movimento, in Italia niente; dovrebbero muoversi squadre come Juventus, Milan e Inter. A noi piacerebbe avere una maggiore visibilità, per far sapere agli altri che la vita non finisce dove non c’è più un braccio o una gamba, ma che si può continuare a realizzare i propri sogni».
Il calcio per amputati è duro, c’è molto agonismo e forse tutta quella garra che viene dalla vita, dalle difficoltà del quotidiano: «Troppi sguardi di pena, nel 2016 manca ancora la giusta sensibilità e poi le città sono inaccessibili, senza contare la burocrazia: io ho una piccola pensione d’invalidità, la patente speciale, ma non ho il parcheggio per invalidi perché per lo Stato sono autosufficiente», per fortuna c’è il football. Daniel ha ripreso ad allenarsi con l’Orlando Calcio, poi con l’APIGE Scuola Calcio Milan Banditella dove ha conosciuto Emiliano: «È il preparatore dei portieri e mi ha aiutato tanto, anche se dice che ha imparato più lui da me, fatto sta che mi ha trovato lavoro nelle giovanili dell’Armando Picchi, spero di riuscire a essere bravo con i bambini». Pure qui c’è lo zampino della Nazionale di calcio amputati, perché è stato il padre di un suo compagno, che si allena con la Scuola Calcio rossonera di Vicenza, a procurargli il contatto con l’APIGE.
Daniel ritiene di avere un carattere chiuso, capace però di dare tutto se stesso quando incontra le persone giuste: «Il calcio mi ha aiutato tanto e non solo dal punto di vista fisico, con gli allenamenti, ma anche caratteriale. L’esperienza con la Nazionale mi ha cresciuto, è stata meravigliosa, il ricordo più bello che porterò dentro di me non sono le vittorie o le sconfitte, ma quei venti giorni passati insieme agli altri ragazzi in Messico, indimenticabili». Il futuro? Ancora calcio: «Il mio obiettivo è quello di vincere un Mondiale o un Europeo, ma vorrei riuscire a cambiare le cose, il mondo, il modo di pensare e attraverso il gioco cercherò di portare in giro la mia esperienza, soprattutto tra i più giovani, è lì che possiamo seminare e coltivare una nuova sensibilità».
In uno dei primi match, vinto 8-1 contro il Belgio, lo speaker l’ha ribattezzato «Dani Buffon» una cosa che l’ha profondamente colpito, perché durante la partita non se l’aspettava, perché era tornato ciò che voleva essere, perché aveva superato ogni confine, perché era riuscito a trovare, con l’aiuto delle persone più care, le chiavi dentro di sé per aprire le porte della prigione e sentirsi nuovamente libero: «Sì, per me il calcio è libertà». Ognuno di noi pensa, spera, nella vita di avere più di una possibilità, per realizzarsi, per raggiungere gli obiettivi prefissati, per riscattarsi, per essere ciò che ha sempre desiderato, ma non sempre siamo capaci di coglierla come ha fatto Daniel.
Gianpaolo Santoro, autore del libro «La solitudine dei numero uno» ha scritto: «Il destino, le fortune, del numero uno non coincidono per forza con quelle della squadra. È come se giocassero due partite distinte». E il ragazzo di Tel Aviv le ha vinte entrambe.