post image

Dream and Goal

Sogna e segna, segna e sogna. Un gioco di parole che Miriam Peruzzi, 33 anni, ha trasformato in realtà con la società di cui è presidente e direttore scouting, con due sedi: una in Gambia, l’altra in Benin. «Dream & Goal» attraverso la creazione di vere e proprie accademie cercherà di promuovere e sviluppare il calcio in West Africa, come dice Miriam, puntando sulla formazione dei giovani e su quella di staff tecnici africani: «Non si può raccontare l’amore che hanno per il football, lo si deve vivere».

Miriam Peruzzi

Diplomata al liceo scientifico di Castiglion Fiorentino, nel suo sangue scorrono in misura uguale coraggio e senso per gli affari, gli statunitensi la definirebbero una entrepreneur o più correttamente businesswoman: «Avevo aperto degli store tecnologici a Empoli e Pontedera con il mio ex ragazzo. Ho lavorato in televisione, ho fatto la modella e poi ho capito che il lavoro in negozio non mi calzava, così ho deciso di lasciare tutto e partire per l’Africa, da sola». Andare cinquant’anni indietro per ritrovarsi cinquant’anni avanti, recuperando le radici più intime e profonde dell’essere umano: «Per avere un futuro migliore bisogna ripartire da se stessi, un passo indietro per farne due in avanti». Miriam ha vissuto un mese in Ghana, tra malaria e dissenteria ma con una determinazione non comune, cercando di conoscere e farsi conoscere.

Il terzo elemento presente nelle vene di questa ragazza toscana è proprio il calcio, grazie al padre: Giulio Peruzzi, ex calciatore e secondo di Paolo Indiani. Un amore intimo e profondo, come in ogni rapporto padre-figlia che si rispetti, che si è tradotto per quel lavoro e quell’impegno che lo portava in giro per gli stadi di mezza Italia: «Inizialmente, i miei genitori non l’hanno presa bene, poi però sono giovani e in casa siamo abituati a confrontarci. In quel mese ho capito che nonostante il gioco del pallone sia così importante per loro (africani, ndr), strutture e preparazione non sono minimamente all’altezza delle ambizioni. Ho iniziato a studiare, in questo sport non si deve mai smettere di farlo, e ho cominciato a preparare dei programmi insieme a mio padre, Paolo Indiani e l’ex del Torino Danilo Pileggi (che ha allenato il St. George in Etiopia vincendo il campionato, ndr)».

Miriam Peruzzi

Occhi verdi ipnotici, severità svizzera e grande competenza il mix vincente che ha aperto le porte di ministeri e federazioni africani, il Benin nel dicembre del 2014 l’ha insignita del titolo di presidente onorario dei centri di formazione nazionali: «Ho trovato persone disposte ad ascoltarmi e capaci di darmi un’opportunità che io ho sfruttato, tessendo rapporti anche con importanti imprenditori locali, che in un futuro potrebbero investire nel calcio europeo, perché l’Africa è il continente di domani», sottolinea Miriam. Intransigente su regole e lavoro s’è trovata alla perfezione in una società di fatto matriarcale con i ragazzi che la seguono senza batter ciglio: «L’Africa non è quella che si vede in televisione o su Internet, è un’altra cosa, bellissima, complicata ma con risorse incredibili, economiche e umane».

image4

La scelta è ricaduta su Gambia e Benin perché sono due Paesi stabili e relativamente tranquilli. Nelle accademie il personale sarà soprattutto italiano: «Oltre lo scouting organizziamo corsi per allenatori, fisioterapisti e tutto lo staff tecnico che oggi il calcio richiede. Ma non si tratta solo di questo, un calciatore deve avere anche una cultura, studiare la storia e la matematica, quindi ci stiamo attrezzando per offrire una formazione completa ai ragazzi africani. C’è poi l’aspetto dell’alimentazione, con una dieta bilanciata, perché non ci si può allenare senza mangiare. Le nostre accademie saranno organizzate come un collegio, ovviamente dando spazio ai migliori grazie a un sistema di borse di studio».

Non sono mancati momenti difficili e pericoli: «Ho dormito in baracche di fango e sterco, ho camminato scalza in mezzo all’immondizia, ho vissuto istanti in cui mi sono detta “ma chi te l’ha fatto fare”, ma alla fine eccomi qua. Paura? Mai, perché ho una grandissima fede in Dio, ognuno ha il suo percorso e quando lui vorrà io sono pronta. Una volta è venuta a trovarmi una mia amica e dopo due giorni voleva scappare». Tifosa della Roma, ammira Luciano Spalletti e anche Francesco Totti, professionista e bravissimo allenatore il primo, carisma e personalità il secondo. Non guarda la televisione, ma legge molto: «Gli scrittori inglesi dell’Ottocento, in particolare Emily Brontë: aiuta a staccare, a liberare la testa quando hai tanti pensieri». L’Italia, la casa a Marciano della Chiana, in provincia di Arezzo, è diventata il suo buen retiro: «Tutto quello che ho fatto lo devo alla mia famiglia, alla serenità che mi hanno infuso e il babbo è l’uomo più felice del mondo, orgoglioso di una figlia che si batte per quello che ama… chi l’avrebbe mai detto cinque anni fa».

Miriam Peruzzi

Nel frattempo sta aiutando Gloria, figlia del console italiano in Benin, a promuovere nuovi talenti musicali africani: «Davido è nigeriano ed è bravissimo». Dall’anno scorso, invece, setaccia i centri d’accoglienza italiani per dare una chance attraverso il calcio: «Chi è in regola con il permesso di soggiorno può avere un’opportunità, come Moussa Balla Sowe che ha giocato nel Parma», in patria militava nell’FC Banjul United. Critica nei confronti dei limiti degli extracomunitari è convinta che gli italiani siano i più bravi a insegnare football: «Non esiste scuola migliore. Il problema è che qui (in Italia, ndr) vai avanti solo se sei stato un calciatore professionista, basta vedere quanta fatica ha fatto Sarri per emergere. Qualcuno poi dovrebbe chiedersi come mai i nostri vivai non producono più certi giocatori, la Nazionale di oggi, nomi alla mano, non mi pare uguale a quella di dieci anni fa». «Come mi vedo tra due lustri? Presidente della Fifa», segna e sogna, sogna e segna Miriam.

post image

La battaglia di Firenze

«C’e’ una strada chiamata “destino” / che porta in collina / C’e’ sul colle ‘na casa argentata / dar chiaro de luna / chi va in cerca d’amore / c’e’ trova ‘na fata divina / ch’e’ signora der bene e del male / e se chiama “fortuna”», cantava nel 1934 Carlo Buti, nato a Firenze il 14 novembre 1902. Proprio in quell’anno era passato dalla Edison Disc alla Columbia con la quale ottenne un enorme successo, grazie a canzoni come «Portami tante rose», «Violino tzigano» e alla radio. L’anno dei Campionati del Mondo organizzati dall’Italia che videro la Nazionale giocare i quarti di finale a Firenze all’allora stadio comunale Giovanni Berta contro la Spagna di Zamora, il portiere che secondo la leggenda ipnotizzava gli attaccanti. La partita fu disputata il 31 maggio ma terminò 1-1 dopo i tempi supplementari, costringendo le squadre alla ripetizione che si disputò il giorno dopo, l’1 giugno 1934.

Con quell’evento il regime fascista colse l’occasione per promuovere la propria immagine nel mondo attraverso il calcio. Grazie a dirigenti quali Giovanni Mauro, Ottorino Barassi e al gerarca Leandro Arpinati, podestà di Bologna, che nel 1929 aveva istituito il girone unico nel campionato di serie A, dando un grande impulso allo sport che ancora divideva a fatica la notorietà con il più amato ciclismo. Intanto il 5 gennaio era stata approvata la legge che istituiva le Corporazioni, mentre il 27 maggio diventava indispensabile per gli impiegati statali e parastatali l’iscrizione al PNF.

Italia-Spagna 1934

L’unico concorrente per il Mondiale era la Svezia che rinunciò e l’8 ottobre 1932 l’assemblea della Fifa decise di assegnare all’Italia l’organizzazione della Coppa del Mondo. Un’organizzazione, per l’epoca, impeccabile, grazie a stadi moderni e funzionali, con il Berta di Firenze considerato un autentico gioiello di architettura. Costruito nel quartiere di Campo di Marte tra il 1930 e il 1932 nell’area del dimesso aerodromo, era stato progettato dall’ingegnere Pier Luigi Nervi e dall’ingegnere professore Gioacchino Luigi Mellucci, che avevano ideato il Teatro Augusteo di Napoli.

Il Commissario tecnico era Vittorio Pozzo, coadiuvato per la preparazione atletica da Carlo Carcano, che aveva conquistato 4 scudetti consecutivi con la Juventus; allenatore che con la Nazionale aveva già vinto la Coppa Internazionale (antesignana degli Europei) nel 1930 e che vincerà due Mondiali (’34, appunto, e ’38), la medaglia d’oro ai Giochi olimpici di Berlino del ’36 e un’altra Coppa Internazionale nel 1935: il Ct in assoluto più vincente della storia azzurra.

Italia 1934

L’1 maggio portò trenta giocatori nell’eremo dell’Alpino sotto il Mottarone, sul lato piemontese del lago Maggiore. La seconda parte del ritiro invece si svolse a La Roveta, tra Montelupo Fiorentino e Firenze: «Lavoro tecnico, su sul colle e giù allo stadio, opera tattica, organizzazione della squadra, intesa teorica e pratica, preparazione al combattimento vero e proprio. Il tutto, lontano dal pubblico nel modo più assoluto, senza nessuno che avesse occasione di scrivere degli articoli tecnici, sul colore delle magliette o sul tipo delle scarpette dei presenti, senza chiacchiere su presunti dissensi, senza lamentele sulla vita claustrale», scriveva Vittorio Pozzo, che fu anche ottimo e preparatissimo giornalista sportivo.

Trentadue le Nazionali iscritte che dovettero affrontare gli spareggi per arrivare in Italia. Agli azzurri toccò la Grecia che fu sconfitta a San Siro 4-0, mentre mancava l’Uruguay campione in carica. Da una parte per ricambiare il gran rifiuto europeo di quattro anni prima, dall’altra perché la nascita del professionismo aveva creato attriti insanabili tra club e federazione tali da non riuscire a mettere insieme una Nazionale competitiva. Quello che accadde all’Argentina, eliminata dalla Svezia negli ottavi di finale. Il 27 maggio, a Roma, la squadra di Pozzo batteva 7-1 gli Stati Uniti e il 31 attendeva a Firenze la Spagna, reduce dalla vittoria per 3-1 contro il Brasile.

Italia-Spagna 1934

Combi, Monzeglio, Allemandi, Pizziolo (mediano della Fiorentina, originario di Castellammare, Napoli), Monti, Castellazzi, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi. Una formazione imbottita di oriundi, alcuni dei quali scapparono qualche anno dopo per non doversi arruolare nell’esercito italiano. La partita è combattuta sotto ogni aspetto, senza esclusione di colpi, tanto che Pizziolo si frattura una gamba. Al 29’ segna Regueiro con un tiro basso, ma al 44’ Ferrari pareggia in mischia. Ai supplementari solo le prodezze del portiere spagnolo Zamora impediscono all’Italia di segnare la rete decisiva. Finisce 1-1 e si va alla ripetizione. Pozzo cambia senza stravolgere l’ossatura della Nazionale e l’1 giugno 1934 manda in campo Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Borel II, Demaria, Orsi. La Spagna, invece, cambia ben sette undicesimi della formazione, tra cui Zamora: «Ebbe sprazzi di violenza quasi selvaggia. La partita, come spettacolo, visse i suoi momenti migliori negli episodi a sfondo atletico-agonistico. La gagliardia e la forza fisica sommersero totalmente la finezza e i virtuosismi», scrisse Vittorio Pozzo. Decide Meazza di testa all’11’ aprendo la strada verso Milano dove il 3 giugno si giocherà la semifinale contro l’Austria, il Wunderteam di Hugo Meisl. L’Italia vincerà 1-0 con rete di Guaita e in finale batterà la Cecoslovacchia 2-1 ai supplementari conquistando la sua prima stella.

Dopo il Mondiale, l’arbitro svizzero Mercet, che l’1 giugno aveva arbitrato la ripetizione di Italia-Spagna, fu squalificato dalla propria federazione; nel secondo tempo aveva annullato un gol di Campanal per fuorigioco di Regueiro. Secondo alcuni questa è la prova che l’Italia ebbe favori ambientali. Ma se da una parte chi ha organizzato i Campionati del Mondo ha spesso goduto di favori ambientali, quasi sempre allineati alla reale forza della squadra, dall’altra non crediamo si possano sminuire all’infinito i valori tecnici e umani di un gruppo che Pozzo aveva saputo forgiare alla perfezione.

post image

La rovesciata di Menchino

Una scritta può diventare un monumento? Ad Arezzo sì. Nel novembre del 2014, lungo uno dei muri del sottopassaggio di via Vittorio Veneto, è comparsa questa: «Sei bella come la rovesciata di Menchino Neri!». Cancellata e riscritta più volte, tanto da invogliare il sindaco Ghinelli a renderla immortale, perché d’immortalità stiamo parlando. L’immortalità di un momento, di un gesto e di un uomo: Domenico Neri, per tutti Menchino.

Nato ad Arezzo il 10 ottobre del ’52 nel quartiere popolare del Gattolino, era cresciuto nelle giovanili amaranto e aveva esordito in B con la squadra della sua città a 19 anni, il 4 giugno 1972, nella partita persa in casa per 1-2 contro il Sorrento. Centrocampista offensivo, alcuni l’hanno definito ‘tricante’, una via di mezzo fra un trequartista e un attaccante. Piedi buoni e tanto fosforo che dal ’73 al ’79 ha speso sui campi di Empoli, Massese, Reggiana e Como, prima di tornare in amaranto, fino all’87. Ha vissuto pienamente e da protagonista gli anni d’oro del presidente Tarcisio Terziani, con la conquista della Coppa Italia di serie C e la promozione in B.

murales

Ma per tutti, qui ad Arezzo, è l’uomo della rovesciata che il 9 giugno 1985, al Comunale (oggi Città di Arezzo), certificò la vittoria dei padroni di casa contro il Campobasso, regalando la salvezza alla sua squadra e alla sua città: «L’unica rete segnata in quel modo, se l’avessi ripetuta altre cento volte mi sarei rotto la schiena», dice Menchino che ci confessa: «Solo mia moglie mi chiama Domenico». Per comprendere il patos e l’emozione di quegli attimi, indimenticabili per ogni tifoso amaranto che si rispetti, basterebbe andare su YouTube, ma stiamo parlando di un evento accaduto trentuno anni fa, quando il calcio era diverso e anche la tecnologia, allora la voce del protagonista assume tutto un altro sapore e significato.

L’Arezzo rischiava di retrocedere, aveva perso nelle Marche contro la Sambenedettese 2-0 la settimana prima, e quella contro i molisani era una gara da dentro o fuori. Per gli amaranto era stata una stagione travagliata iniziata con Riccomini in panchina: «Uomo molto intelligente, umano, furbo e studiava le partite come nessun’altro», ricorda Neri. Ma i risultati, si sa, fanno la fortuna e la sfortuna degli allenatori, così quel 9 giugno in panchina c’era Mario Rossi (subentrato a Chiappella che aveva preso il posto di Riccomini), Pinella, ex portiere e ciclico salvatore della patria, ruolo ricoperto poi anche da Menchino in varie occasioni. Al 17’ del secondo tempo l’arbitro Pieri di Genova concede all’Arezzo un calcio di rigore. Nessuno se la sente, davanti c’è il portiere Walter Ciappi, nato a Buenos Aires ma calcisticamente in Toscana, nel vivaio del Castelfiorentino. Dietro questo la curva amaranto. Sul dischetto va Neri, l’uomo del destino, forse l’unico in quel momento capace di prendersi tanta responsabilità. Ma Ciappi para il tiro di Menchino: «Mi è crollato il mondo addosso, pensavo che tutti si sarebbero ricordati di me per aver fatto retrocedere la squadra della mia città, da quanto ero depresso stavo uscendo dal campo e un fotografo di peso mi rimandò dentro».

Pinella Rossi

Dopo cinque minuti, al 22’, Amedeo Carboni porta avanti il pallone con la forza della disperazione ottenendo un calcio d’angolo. Il tiro dalla bandierina arriva dalla parte opposta, Mangoni lo ributta in mezzo e Menchino Neri realizza quella che è stata definitiva la rovesciata dei sogni: «Temevo che avrebbero ricordato la disfatta, invece dopo oltre trent’anni tutti ricordano quel gol, per strada, ma anche qui in negozio: “Ah, sei quello della rovesciata”». Il telecronista locale grida «Grazie Menchino, grazie Menchino», mentre il numero 8 amaranto corre sotto la curva di uno stadio che è letteralmente esploso di gioia e commozione. Incredibile il gesto di Ciappi, che si toglie i guanti, gli va incontro e gli da la mano facendogli i complimenti.

Nel 1985 Arezzo era la città dell’oro, c’erano più di duecento fabbriche, c’era la Unoaerre, c’era la Lebole nel settore tessile e c’era una ricchezza diffusa: «Non nel calcio, però, Terziani ha portato avanti la squadra tutto da solo», sottolinea Neri. Lo stesso Terziani che davanti alle richieste di Cesena e Genoa, in serie A, chiese (impose) a Menchino di restare per fare poi il dirigente.

Tovalieri

Quell’anno era iniziato con una nevicata record, tale da provocare una gelata eccezionale che danneggiò tutti gli uliveti della provincia. Il 29 maggio a Bruxelles nello stadio Heysel erano morte 39 persone, due di queste di Arezzo: la studentessa Giuseppina Conti e il medico Roberto Lorentini. Il giorno di Arezzo-Campobasso l’Italia votava il referendum abrogativo della legge che aveva introdotto il taglio della scala mobile, portando alle urne il 78% degli aventi diritto: vinse il NO con il 54,3 per cento. Francesco Cossiga è eletto presidente della Repubblica, a Palermo, in un agguato mafioso, viene ucciso Giuseppe Montana, dirigente della catturandi, e il Verona di Osvaldo Bagnoli vince lo scudetto.

Quell’Arezzo era soprattutto un gruppo di amici, che giocava insieme da anni: «Correvamo gli uni per gli altri e ci frequentiamo ancora oggi. Condividere il campo, lo spogliatoio, gli scherzi, le emozioni crea legami indissolubili», afferma Menchino, seduto dietro la scrivania del suo negozio di orologi in via de’ Mannini, che è rimasto molto colpito da quella scritta sul muro, un monumento da vivo. «Mi auguro che l’Arezzo un giorno riesca ad arrivare in serie A, ma comunque andranno le cose quella rovesciata non sarà mai dimenticata» e i suoi occhi s’illuminano, nonostante sia da tutti riconosciuto come un uomo schivo, che non ama mettersi in mostra, uno che quando la società ha chiamato è sempre andato a dare una mano, prima da allenatore, poi da dirigente. «L’Arezzo mi ha fatto crescere e dato benessere, non lo dimenticherò mai. Dopo la mia famiglia c’è la maglia amaranto», dichiara Domenico. E allora, dopo avere letto il giornale, andate dalla vostra ragazza, moglie, compagna e sussurratele in un orecchio: «Sei bella come la rovesciata di Menchino Neri!». E se d’acchito non comprende raccontatele la storia di Menchino e di quel 9 giugno 1985.

post image

Il sesto senso del calcio

Lo sport, più spesso di quanto si pensi, è resilienza, la capacità di rialzarsi, di assorbire una sconfitta e continuare a lottare, vivere facendo quello che più ci piace, nonostante le cicatrici che niente e nessuno potrà mai cancellare. Flavio Aurelio Bittencourt da Silva era un mediano che amava salire oltre che difendere, ma dopo un dribbling secco il difensore saltato gli sferrò un cazzotto, era il 1989. Fu operato a un occhio, senza esito, e gradualmente perse la vista anche nell’altro, diventando cieco. Venditore di cinture e abbigliamento era spesso in viaggio per lavoro, il passaggio dalla luce al buio ha cambiato drasticamente la sua vita. Ma quando tutto sembrava perduto Flavio Aurelio si è aggrappato con tutte le sue forze allo sport più amato, diventando l’uomo tuttofare della società del distrito dov’è nato, che nel 1985 aveva contribuito a fondare: l’Esporte Clube Juventude di Bom Jardim, quartiere di Fortaleza, nord est del Brasile.

Nel 2005 è diventato allenatore della sua squadra del cuore che, ha dichiarato, lascerà solamente da morto. Si parla spesso di sport come volano d’inclusione sociale, soprattutto per i diversamente abili, ma la storia di Flavio Aurelio Bittencourt da Silva è qualcosa che va oltre la nostra povera immaginazione, perché ci sono una trentina di ragazzi vedenti che si fidano e si fanno allenare da lui, secondo alcuni di loro sa leggere meglio il calcio di molti altri allenatori normodotati. Flavio Aurelio non vede ma ci sente benissimo e l’udito è il senso con il quale conduce gli allenamenti e segue le partite, gridando, suggerendo, incoraggiando, insieme al suo secondo.

Lo scorso luglio la locale federazione ha regalato all’Esporte Clube Juventude le maglie nuove, ufficiali e da trasferta, insieme a una dozzina di palloni avanzati dai Mondiali di un anno e mezzo fa. I ragazzi di Flavio Aurelio giocano sulla terra battuta e dividono il campo con l’Ipiranga che glielo affitta per qualche spicciolo. I giocatori, ovviamente, sono dilettanti, hanno tutti un altro lavoro, le sessioni di allenamento sono poche e non essendoci i riflettori la sera non si può giocare né allenarsi. Questo, però, non ha impedito ai biancoverdi (i colori dell’Esporte Clube Juventude) di vincere la Triplice Alleanza, il torneo del quartiere Bom Jardim, terzo trofeo in carriera per Flavio Aurelio Bittencourt da Silva. I giovani di Fortaleza conoscono la sua storia ed è diventato un esempio, il testimonial di un campionato, seppur dilettante, al quale tutti vogliono partecipare, anche per conoscerlo di persona, vista la sua bravura come tecnico. Una leggenda vivente che senza vedere sa e capisce prima di tanti altri una situazione di gioco, con una consapevolezza dello spazio intorno a sé invidiabile.

Lui, oggi, vive a venti chilometri di distanza dal campo e per arrivarci deve prendere tre autobus per un’ora e mezza di viaggio, ma niente può fermarlo perché questo lavoro, il futebol, è la sua vita e la sua terapia, più psicologica che fisica. Geovania Carreiro è sua moglie, cieca dalla nascita, che lo aiuta e lo supporta: «Da quando lo conosco ha una concezione dello spazio intorno a me migliore, abbiamo lo stesso handicap ma lui sa muoversi meglio». Purtroppo pure la figlia di undici anni, Vivian Raiane, è affetta da un grave glaucoma, dovrà sottoporsi a un intervento chirurgico e la famiglia sta cercando un aiuto economico per poterlo pagare.

La vita sa regalare dolci sorprese, ma anche dolori incommensurabili, perché veder soffrire un figlio ha pochi eguali. E poi non c’è il lieto fine come nei film, come nella maggior parte, c’è solo il tempo da vivere per renderci quello che siamo e quello che saremo, insieme con il segno che lasceremo. Flavio Aurelio Bittencourt da Silva ha vissuto per il calcio, ha perso la vista per lo stesso motivo e grazie a questo sport ha una vita dignitosa, fatta di vittorie, sconfitte, speranze. In campo si comporta come quasi tutti i suoi colleghi, più o meno famosi, impreca, si arrabbia e se la prende pure con gli arbitri: «Per l’amor di Dio, signor arbitro, lei è più cieco di me…», ha urlato una volta. Flavio Aurelio è conosciuto anche come Ceguin, che è il diminutivo portoghese di cieco, non sarà politicamente corretto ma questo non cambia le cose, non cambierà mai la sua vista, così come la passione per il calcio e per una vita che, sicuramente, immaginava diversa, ma che un cazzotto ha cambiato per sempre. In meglio o in peggio, chi lo sa.