La rovesciata di Menchino
Una scritta può diventare un monumento? Ad Arezzo sì. Nel novembre del 2014, lungo uno dei muri del sottopassaggio di via Vittorio Veneto, è comparsa questa: «Sei bella come la rovesciata di Menchino Neri!». Cancellata e riscritta più volte, tanto da invogliare il sindaco Ghinelli a renderla immortale, perché d’immortalità stiamo parlando. L’immortalità di un momento, di un gesto e di un uomo: Domenico Neri, per tutti Menchino.
Nato ad Arezzo il 10 ottobre del ’52 nel quartiere popolare del Gattolino, era cresciuto nelle giovanili amaranto e aveva esordito in B con la squadra della sua città a 19 anni, il 4 giugno 1972, nella partita persa in casa per 1-2 contro il Sorrento. Centrocampista offensivo, alcuni l’hanno definito ‘tricante’, una via di mezzo fra un trequartista e un attaccante. Piedi buoni e tanto fosforo che dal ’73 al ’79 ha speso sui campi di Empoli, Massese, Reggiana e Como, prima di tornare in amaranto, fino all’87. Ha vissuto pienamente e da protagonista gli anni d’oro del presidente Tarcisio Terziani, con la conquista della Coppa Italia di serie C e la promozione in B.
Ma per tutti, qui ad Arezzo, è l’uomo della rovesciata che il 9 giugno 1985, al Comunale (oggi Città di Arezzo), certificò la vittoria dei padroni di casa contro il Campobasso, regalando la salvezza alla sua squadra e alla sua città: «L’unica rete segnata in quel modo, se l’avessi ripetuta altre cento volte mi sarei rotto la schiena», dice Menchino che ci confessa: «Solo mia moglie mi chiama Domenico». Per comprendere il patos e l’emozione di quegli attimi, indimenticabili per ogni tifoso amaranto che si rispetti, basterebbe andare su YouTube, ma stiamo parlando di un evento accaduto trentuno anni fa, quando il calcio era diverso e anche la tecnologia, allora la voce del protagonista assume tutto un altro sapore e significato.
L’Arezzo rischiava di retrocedere, aveva perso nelle Marche contro la Sambenedettese 2-0 la settimana prima, e quella contro i molisani era una gara da dentro o fuori. Per gli amaranto era stata una stagione travagliata iniziata con Riccomini in panchina: «Uomo molto intelligente, umano, furbo e studiava le partite come nessun’altro», ricorda Neri. Ma i risultati, si sa, fanno la fortuna e la sfortuna degli allenatori, così quel 9 giugno in panchina c’era Mario Rossi (subentrato a Chiappella che aveva preso il posto di Riccomini), Pinella, ex portiere e ciclico salvatore della patria, ruolo ricoperto poi anche da Menchino in varie occasioni. Al 17’ del secondo tempo l’arbitro Pieri di Genova concede all’Arezzo un calcio di rigore. Nessuno se la sente, davanti c’è il portiere Walter Ciappi, nato a Buenos Aires ma calcisticamente in Toscana, nel vivaio del Castelfiorentino. Dietro questo la curva amaranto. Sul dischetto va Neri, l’uomo del destino, forse l’unico in quel momento capace di prendersi tanta responsabilità. Ma Ciappi para il tiro di Menchino: «Mi è crollato il mondo addosso, pensavo che tutti si sarebbero ricordati di me per aver fatto retrocedere la squadra della mia città, da quanto ero depresso stavo uscendo dal campo e un fotografo di peso mi rimandò dentro».
Dopo cinque minuti, al 22’, Amedeo Carboni porta avanti il pallone con la forza della disperazione ottenendo un calcio d’angolo. Il tiro dalla bandierina arriva dalla parte opposta, Mangoni lo ributta in mezzo e Menchino Neri realizza quella che è stata definitiva la rovesciata dei sogni: «Temevo che avrebbero ricordato la disfatta, invece dopo oltre trent’anni tutti ricordano quel gol, per strada, ma anche qui in negozio: “Ah, sei quello della rovesciata”». Il telecronista locale grida «Grazie Menchino, grazie Menchino», mentre il numero 8 amaranto corre sotto la curva di uno stadio che è letteralmente esploso di gioia e commozione. Incredibile il gesto di Ciappi, che si toglie i guanti, gli va incontro e gli da la mano facendogli i complimenti.
Nel 1985 Arezzo era la città dell’oro, c’erano più di duecento fabbriche, c’era la Unoaerre, c’era la Lebole nel settore tessile e c’era una ricchezza diffusa: «Non nel calcio, però, Terziani ha portato avanti la squadra tutto da solo», sottolinea Neri. Lo stesso Terziani che davanti alle richieste di Cesena e Genoa, in serie A, chiese (impose) a Menchino di restare per fare poi il dirigente.
Quell’anno era iniziato con una nevicata record, tale da provocare una gelata eccezionale che danneggiò tutti gli uliveti della provincia. Il 29 maggio a Bruxelles nello stadio Heysel erano morte 39 persone, due di queste di Arezzo: la studentessa Giuseppina Conti e il medico Roberto Lorentini. Il giorno di Arezzo-Campobasso l’Italia votava il referendum abrogativo della legge che aveva introdotto il taglio della scala mobile, portando alle urne il 78% degli aventi diritto: vinse il NO con il 54,3 per cento. Francesco Cossiga è eletto presidente della Repubblica, a Palermo, in un agguato mafioso, viene ucciso Giuseppe Montana, dirigente della catturandi, e il Verona di Osvaldo Bagnoli vince lo scudetto.
Quell’Arezzo era soprattutto un gruppo di amici, che giocava insieme da anni: «Correvamo gli uni per gli altri e ci frequentiamo ancora oggi. Condividere il campo, lo spogliatoio, gli scherzi, le emozioni crea legami indissolubili», afferma Menchino, seduto dietro la scrivania del suo negozio di orologi in via de’ Mannini, che è rimasto molto colpito da quella scritta sul muro, un monumento da vivo. «Mi auguro che l’Arezzo un giorno riesca ad arrivare in serie A, ma comunque andranno le cose quella rovesciata non sarà mai dimenticata» e i suoi occhi s’illuminano, nonostante sia da tutti riconosciuto come un uomo schivo, che non ama mettersi in mostra, uno che quando la società ha chiamato è sempre andato a dare una mano, prima da allenatore, poi da dirigente. «L’Arezzo mi ha fatto crescere e dato benessere, non lo dimenticherò mai. Dopo la mia famiglia c’è la maglia amaranto», dichiara Domenico. E allora, dopo avere letto il giornale, andate dalla vostra ragazza, moglie, compagna e sussurratele in un orecchio: «Sei bella come la rovesciata di Menchino Neri!». E se d’acchito non comprende raccontatele la storia di Menchino e di quel 9 giugno 1985.