Mesut Özil

Le ragazze di Za’atari

Za’atari (o Zaatari) è un campo profughi giordano al confine con la Siria. Una città di 82.000 persone, il 54 per cento bambini e bambine, con scuole, un mercato e tutti i problemi di un campo profughi che in poco tempo è cresciuto a dismisura. L’approvvigionamento dell’acqua, il cibo, il rispetto dei diritti umani e le attività ricreative per i più piccoli. Esistono, infatti, spazi appositi dove i bambini possono giocare e rilassarsi in un ambiente protetto.

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A Za’atari si gioca anche a calcio, sia in maniera casuale che organizzata, grazie all’iniziativa di varie associazioni e ONG, più o meno legate ai progetti della Fifa e di altre organizzazioni sportive, per fare sì che il football sia una disciplina che, da una parte, possa dare ai ragazzi l’opportunità di svagarsi e, dall’altra, diventi anche un momento di formazione sportiva che possa lasciare un segno del suo passaggio. Insomma la differenza che c’era una volta tra giocare nel proprio cortile di casa e fare tutta la trafila nelle giovanili di un club dilettante.

Sono molti gli allenatori preparati che frequentano Za’atari, alcuni di loro hanno interpretato questo progetto come una sfida, arrivando a organizzare un torneo di sole ragazze, con numeri impensabili all’inizio.

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Tre i problemi di fondo. In parte del mondo islamico lo sport è quasi esclusivamente appannaggio dei maschi. Le famiglie, per questo motivo e altri, sono contrarie al fatto che le figlie possano praticare sport, calcio in particolare. Le ragazze si vergognano a giocare davanti ai maschi. Pensare che alcuni ragazzini, costretti dai genitori, lavorano per mandare i soldi alle famiglie, o parti di esse, rimaste in Siria metterebbe in secondo piano qualsiasi altro argomento, ma su queste pagine si parla di calcio e ci sono momenti, della vita e della storia, in cui un’attività considerata sovversiva e pericolosa da praticare può diventare dirompente: nell’affermazione dei propri diritti, nella crescita individuale e di genere.

L’inizio è stato difficile, con un mini torneo diviso per età, sotto undici anni e undici-quindici. Nascoste al resto del campo profughi le ragazze sono cresciute con un pallone tra i piedi, hanno assaporato l’indipendenza, la voglia di affermarsi e di vincere, che nella vita troppo spesso è trascurata, e hanno contagiato le altre. Non solo, la scintilla scoccata all’interno del gruppo e col proprio allenatore di riferimento è stata trasmessa dalle stesse alle proprie famiglie, probabilmente la cosa più difficile, ma anche quella più importante, perché così si sono guadagnate la loro fiducia e, poi, il loro tifo e interessamento al calcio e all’attività sportiva delle figlie, un’attività sempre più organizzata.

Giocare perché proibito, giocare per sentirsi vive, giocare perché così fanno tutte le ragazze del mondo, anche se il mondo è altrove e Za’atari è solo un puntino sulla carta geografica, vicino alla guerra e lontano al tempo stesso, perché vuoi sfuggire all’orrore che ti porti dentro.

Molti esperti di settore si sono interrogati se questa forzatura, quest’attività con le ragazze, è necessaria all’interno di un campo profughi, se queste ONG e associazioni stanno spendendo bene il proprio tempo e le proprie risorse, se non fosse necessario impegnarsi in altre attività più fruttuose per tutti, ma l’impatto di questa iniziativa è stato così forte che sarà difficile fermarla.

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Oggi le ragazze che giocano a pallone a Za’atari sono 500 suddivise in 17 squadre, anche se dispongono solamente di 5 allenatori professionali. E sono diventate così famose che hanno ricevuto la visita di alcuni calciatori professionisti, come Mesut Özil, il centrocampista tedesco di origine turca che milita nell’Arsenal. All’inizio ragazzi e ragazze rubavano tutto, dagli snack ai palloni, per sfiducia o per la precarietà di un campo profughi dove, nonostante tutto, vige la legge della strada, difficile da spiegare e, forse, anche da capire. Poi la svolta, quando le e gli adolescenti hanno compreso che quel progetto era per loro e se ne sono appropriati, quando hanno capito che quelle cose erano state portate apposta per sviluppare insieme un’attività, per rendere le giornate dentro Za’atari meno grigie, per sentirsi, anche solo per un’ora, come tutti gli altri adolescenti del mondo.

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Al di là della facile retorica che accomuna la guerra e il calcio, distintamente e/o insieme, lo sport in queste condizioni è utile se abbatte i confini, se aiuta a sognare, se porta il cuore e la mente là dove dovrebbero essere e non dentro un campo profughi a pochi chilometri dalla guerra. Questo accade grazie anche all’organizzazione che c’è dentro Za’atari, alle ONG impegnate per il rispetto dei diritti umani che restano vigili e presenti, soprattutto per i più piccoli, quelli che rischiano di più, che sono più deboli. Allora ecco che il football, con le sue regole, la sua formazione, il suo entusiasmo, accende qualcosa, aiuta a crescere, aiuta a recuperare se stessi per quello che è possibile in una situazione al limite, non solo fisico ma pure psicologico. I reporter che raccontano Za’atari scrivono di un calcio capace di far trovare attimi di normalità alle ragazze, e ai ragazzi, che lo praticano. Impossibile dare una risposta da così lontano, difficile dire se un giorno sarà servito a qualcosa, se potranno tornare in Siria, se continueranno a giocare. Una cosa, però, è certa: se quei calci a una palla gli hanno fatto alzare lo sguardo e l’orgoglio di vivere, non sopravvivere, di lottare per un posto in squadra, come nella vita, allora non è stato un impegno vano, allora il gioco ha tirato fuori il meglio che può dare in determinate condizioni. Non le dimenticate, sono le ragazze di Za’atari.

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