La battaglia di Firenze
«C’e’ una strada chiamata “destino” / che porta in collina / C’e’ sul colle ‘na casa argentata / dar chiaro de luna / chi va in cerca d’amore / c’e’ trova ‘na fata divina / ch’e’ signora der bene e del male / e se chiama “fortuna”», cantava nel 1934 Carlo Buti, nato a Firenze il 14 novembre 1902. Proprio in quell’anno era passato dalla Edison Disc alla Columbia con la quale ottenne un enorme successo, grazie a canzoni come «Portami tante rose», «Violino tzigano» e alla radio. L’anno dei Campionati del Mondo organizzati dall’Italia che videro la Nazionale giocare i quarti di finale a Firenze all’allora stadio comunale Giovanni Berta contro la Spagna di Zamora, il portiere che secondo la leggenda ipnotizzava gli attaccanti. La partita fu disputata il 31 maggio ma terminò 1-1 dopo i tempi supplementari, costringendo le squadre alla ripetizione che si disputò il giorno dopo, l’1 giugno 1934.
Con quell’evento il regime fascista colse l’occasione per promuovere la propria immagine nel mondo attraverso il calcio. Grazie a dirigenti quali Giovanni Mauro, Ottorino Barassi e al gerarca Leandro Arpinati, podestà di Bologna, che nel 1929 aveva istituito il girone unico nel campionato di serie A, dando un grande impulso allo sport che ancora divideva a fatica la notorietà con il più amato ciclismo. Intanto il 5 gennaio era stata approvata la legge che istituiva le Corporazioni, mentre il 27 maggio diventava indispensabile per gli impiegati statali e parastatali l’iscrizione al PNF.
L’unico concorrente per il Mondiale era la Svezia che rinunciò e l’8 ottobre 1932 l’assemblea della Fifa decise di assegnare all’Italia l’organizzazione della Coppa del Mondo. Un’organizzazione, per l’epoca, impeccabile, grazie a stadi moderni e funzionali, con il Berta di Firenze considerato un autentico gioiello di architettura. Costruito nel quartiere di Campo di Marte tra il 1930 e il 1932 nell’area del dimesso aerodromo, era stato progettato dall’ingegnere Pier Luigi Nervi e dall’ingegnere professore Gioacchino Luigi Mellucci, che avevano ideato il Teatro Augusteo di Napoli.
Il Commissario tecnico era Vittorio Pozzo, coadiuvato per la preparazione atletica da Carlo Carcano, che aveva conquistato 4 scudetti consecutivi con la Juventus; allenatore che con la Nazionale aveva già vinto la Coppa Internazionale (antesignana degli Europei) nel 1930 e che vincerà due Mondiali (’34, appunto, e ’38), la medaglia d’oro ai Giochi olimpici di Berlino del ’36 e un’altra Coppa Internazionale nel 1935: il Ct in assoluto più vincente della storia azzurra.
L’1 maggio portò trenta giocatori nell’eremo dell’Alpino sotto il Mottarone, sul lato piemontese del lago Maggiore. La seconda parte del ritiro invece si svolse a La Roveta, tra Montelupo Fiorentino e Firenze: «Lavoro tecnico, su sul colle e giù allo stadio, opera tattica, organizzazione della squadra, intesa teorica e pratica, preparazione al combattimento vero e proprio. Il tutto, lontano dal pubblico nel modo più assoluto, senza nessuno che avesse occasione di scrivere degli articoli tecnici, sul colore delle magliette o sul tipo delle scarpette dei presenti, senza chiacchiere su presunti dissensi, senza lamentele sulla vita claustrale», scriveva Vittorio Pozzo, che fu anche ottimo e preparatissimo giornalista sportivo.
Trentadue le Nazionali iscritte che dovettero affrontare gli spareggi per arrivare in Italia. Agli azzurri toccò la Grecia che fu sconfitta a San Siro 4-0, mentre mancava l’Uruguay campione in carica. Da una parte per ricambiare il gran rifiuto europeo di quattro anni prima, dall’altra perché la nascita del professionismo aveva creato attriti insanabili tra club e federazione tali da non riuscire a mettere insieme una Nazionale competitiva. Quello che accadde all’Argentina, eliminata dalla Svezia negli ottavi di finale. Il 27 maggio, a Roma, la squadra di Pozzo batteva 7-1 gli Stati Uniti e il 31 attendeva a Firenze la Spagna, reduce dalla vittoria per 3-1 contro il Brasile.
Combi, Monzeglio, Allemandi, Pizziolo (mediano della Fiorentina, originario di Castellammare, Napoli), Monti, Castellazzi, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi. Una formazione imbottita di oriundi, alcuni dei quali scapparono qualche anno dopo per non doversi arruolare nell’esercito italiano. La partita è combattuta sotto ogni aspetto, senza esclusione di colpi, tanto che Pizziolo si frattura una gamba. Al 29’ segna Regueiro con un tiro basso, ma al 44’ Ferrari pareggia in mischia. Ai supplementari solo le prodezze del portiere spagnolo Zamora impediscono all’Italia di segnare la rete decisiva. Finisce 1-1 e si va alla ripetizione. Pozzo cambia senza stravolgere l’ossatura della Nazionale e l’1 giugno 1934 manda in campo Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Borel II, Demaria, Orsi. La Spagna, invece, cambia ben sette undicesimi della formazione, tra cui Zamora: «Ebbe sprazzi di violenza quasi selvaggia. La partita, come spettacolo, visse i suoi momenti migliori negli episodi a sfondo atletico-agonistico. La gagliardia e la forza fisica sommersero totalmente la finezza e i virtuosismi», scrisse Vittorio Pozzo. Decide Meazza di testa all’11’ aprendo la strada verso Milano dove il 3 giugno si giocherà la semifinale contro l’Austria, il Wunderteam di Hugo Meisl. L’Italia vincerà 1-0 con rete di Guaita e in finale batterà la Cecoslovacchia 2-1 ai supplementari conquistando la sua prima stella.
Dopo il Mondiale, l’arbitro svizzero Mercet, che l’1 giugno aveva arbitrato la ripetizione di Italia-Spagna, fu squalificato dalla propria federazione; nel secondo tempo aveva annullato un gol di Campanal per fuorigioco di Regueiro. Secondo alcuni questa è la prova che l’Italia ebbe favori ambientali. Ma se da una parte chi ha organizzato i Campionati del Mondo ha spesso goduto di favori ambientali, quasi sempre allineati alla reale forza della squadra, dall’altra non crediamo si possano sminuire all’infinito i valori tecnici e umani di un gruppo che Pozzo aveva saputo forgiare alla perfezione.