La rivincita della Valle del Chota
Un pallone sgarrupato, un campo sterrato, stretto tra la strada e il fiume, finte e controfinte tra sassi e terra, da scalzi, senza neanche la minima idea di una scarpetta da calcio. Quando tutto questo è l’unica chance che hai, tra il niente e un futuro da giocatore professionista.
El Juncal è un paese di 1.200 anime, con una sola chiesa, dove gli uomini raccolgono patate e le donne cercano di venderle al mercato, un’economia di sussistenza per una popolazione che da secoli si spezza la schiena nella Valle del Chota, tra l’omonimo fiume e le Ande, accanto la Panamericana Norte, tra il confine della provincia di Imbabura e quella di Carchi. Una terra antica come la sua storia, tra gesuiti e mercanti di schiavi, una palude convertita al cotone e alla canna da zucchero, dove col tempo gli indigeni sono stati sostituiti dalle nuove generazioni di uomini e donne deportati dall’Africa: Guinea, Congo, Sudan, Kenya, Nigeria, Angola. Oggi rappresentano la minoranza afroecuadoriana per la quale il governo di Quito ha istituito un tavolo di sviluppo, poiché dal censimento del 2001 risulta che il 70% degli afroecuadoriani vive in povertà contro il 40% dei bianchi, percentuale che a El Juncal raggiunge il 99%.
Carenza di infrastrutture, di scuole, di ospedali e la consapevolezza di nascere in uno dei peggiori posti del mondo, nascere nella Valle del Chota è uno stigma difficile da cancellare, un marchio del destino che significa: senza speranza. Eppure, come accade in altri luoghi dimenticati da Dio e dagli uomini, la dea Eupalla ha deciso di regalare a questi ragazzi una possibilità di riscatto. Infatti, negli ultimi vent’anni, dalle rive del Chota una trentina sono partiti verso il calcio professionistico, facendo la fortuna delle squadre che li hanno ingaggiati e soprattutto della Nazionale che si è fatta conoscere con partecipazioni non banali alle tre edizioni dei Mondiali nelle quali si è qualificata, con gli ottavi di finale conquistati nel 2006. Uno di questi è Agustin Delgado, detto il Tin, nato ad Ambuquì. Ex giocatore dell’LDU Quito, dell’Emelec e della Valle del Chota, con un’esperienza di tre stagioni al Southampton, non si è dimenticato delle proprie origini e sta cercando di fare qualcosa per la sua gente a partire dall’autostima: «Devono imparare a non avere paura di nessuno». Affermazione che potrebbe sembrare peregrina, ma il razzismo è molto forte anche da queste parti nonostante i neri rappresentino solamente il 5% della popolazione.
La partecipazione alla Coppa del Mondo ha trasformato Delgado in un idolo per l’Ecuador e un punto di riferimento per gli afroecuadoriani. Ruolo che ha sposato in pieno senza tirarsi indietro e con lui altri compagni di squadra originari della Valle del Chota. Ognuno per quello che può ha fatto costruire scuole e ospedali. A El Juncal Delgado ha aperto un ospedale che però funziona solamente il venerdì per carenza di personale, così sta cercando un accordo con il ministero della Sanità perché possa rimanere aperto più giorni durante la settimana. Piccole vittorie e conquiste che però spostano solamente di centimetri la condizione d’indigenza nella quale vivono le donne e gli uomini figli degli schiavi portati qui nel XVII secolo.
Il Tin dedica la sua attenzione pure al calcio, con accademie per ragazzi dai 6 ai 20 anni, e per le ragazze. Girando per la valle è facile vederli con indosso solamente un paio di calzoni sdruciti e sotto il braccio un pallone, come se si aggrappassero alla vita, come se nel mare delle difficoltà fosse l’unico appiglio da stringere forte e sognare. Su 150 solo 15 in media arrivano al calcio professionistico ecuadoriano, che non è certamente ricco come quello europeo. Ma giocare significa crescere, rispettare se stessi e gli altri, imparare delle regole, impegnarsi, soffrire per raggiungere un risultato. Allora succede che qualcuno non vestirà mai la maglia gialla della Nazionale ma potrà studiare e trovare un lavoro, modesto ma capace di mantenere una famiglia fuori da quella povertà che sembrava l’unico destino possibile.
Diana e Pedro (ex giocatore professionista) Delgado aiutano il fratello in questa missione e il loro rammarico è che non possono aiutare più città e più persone. Agustin, prima di ritirarsi, guadagnava 15.000 dollari al mese e metà li versava nella fondazione che porta il suo nome e che si occupa di tutte queste attività. È un lavoro certosino e non facile, perché le resistenze sono tante, il razzismo per certi aspetti è peggiorato anche in virtù dei successi dei calciatori neri della Valle del Chota, che attraverso il futbol hanno scoperto un orgoglio sconosciuto, ma al tempo stesso forte e catartico.
Se un giorno vi capitasse di passare dalle parti di El Juncal, seguendo il corso del Chota con le Ande a farvi ombra, fermatevi a tirare due calci con i ragazzi sotto la Panamericana Norte, potreste riscoprire per un attimo l’importanza del gioco, quel calcio che per noi è diventato altro, per scoprire da dove veniamo e da dove si parte ogni volta che si fa rotolare un pallone.