Il senso di Giulia per il tennis
I giapponesi la chiamano kintsugi o kintsukuroi (riparare con l’oro), una pratica attraverso la quale si riparano oggetti di ceramica usando oro o argento per saldare i pezzi tra loro, questa scaturisce dall’idea che dall’imperfezione o da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore. La ferita di Giulia, invece, non si è rimarginata, perché il dolore è sempre lì a ricordarle la malattia che le ha provocato la disabilità e che l’ha fatta sedere su una seggiola a rotelle con una racchetta in mano, ma proprio qui sta il suo kintsugi, la capacità di trasformare in oro un’imperfezione, l’opportunità di cambiare la propria vita nella realtà che aveva sempre sognato. Nonostante tutto.
I suoi occhi marroni ti fissano tra una sigaretta e l’altra, in quella luce c’è un mondo, il mondo di Giulia Capocci che ha iniziato a giocare a tennis quando aveva dieci anni e che adesso è una delle atlete italiane più promettenti del wheelchair tennis o, più semplicemente, tennis in carrozzina: «Ho sperimentato molti sport, poi i miei genitori mi hanno fatto provare la racchetta ed è stato amore a prima vista, passavo quasi tutto il giorno al circolo di Montevarchi con la scusa di aiutare il mio maestro (Andrea Chechi, ndr), la scuola la mettevo in secondo piano». Questo, però, non le ha impedito di diplomarsi, ragioneria, e appena possibile di prendere il PTR e il primo grado FIT per insegnare agli altri a giocare, assaporando l’indipendenza economica: «Allenavo insieme al mio maestro che mi portava con sé, insegnando in circoli diversi».
Nel marzo del 2013, durante un allenamento, Giulia si rompe il menisco, continua a lavorare per due settimane con la gamba dolente e si opera in un normale sabato mattina: «Un’operazione programmata, poi, quando avevo iniziato la riabilitazione, è arrivata la malattia, un’algodistrofia o CRPS (Sindrome Dolorosa Regionale Complessa, ndr), di cui non si conoscono le cause». Un decorso che le ha fatto perdere l’uso della gamba destra con un dolore cronico che in una scala da zero a dieci è fisso sul sette: «Non c’è medicina che tenga, agli antidolorifici rischi di abituarti e doverne usare sempre di più forti, mi hanno proposto pure l’utilizzo della cannabis, ma non potrei fare sport né guidare la macchina, quindi ci convivo».
Dove c’era una moto, «una delle mie grandi passioni», e una vita vissuta al massimo, sono arrivate due stampelle: «Che fatica, anche uscire era diventato un problema, perché dopo dieci passi ero distrutta, fino a che i medici mi hanno detto che la schiena e l’anca della gamba sinistra ne stavano risentendo e che non le potevo rischiare, così è arrivata la sedia a rotelle. Ho passato un periodo in cui non volevo uscire di casa perché le terapie non funzionavano, non si riusciva a fare diagnosi ed ero emotivamente a pezzi». La vicinanza dei genitori, Michela e Paolo, un aiuto psicologico e, ancora una volta, il tennis hanno risollevato Giulia e l’hanno lanciata verso un nuovo destino. Nel 2014 si reca a Castiglion Fiorentino per vedere un torneo di wheelchair tennis, fa amicizia con un gruppo di ragazzi, lega subito e la settimana dopo è all’Elba con loro per un’altra competizione. In estate a Cecina, per scherzo, la mettono su una sedia con una racchetta in mano per fare due tiri: «La palla sulle corde, è stato incredibile riprovare certe sensazioni, bellissimo. Così ho iniziato a giocare a latere dei vari tornei chiedendo la carrozzina in prestito».
Quasi un anno fa la diagnosi definitiva le ha permesso di prendere parte al primo torneo che si è svolto a Padova in autunno: «Eravamo solo due ragazze e ci hanno inserito nei tabelloni dei maschi, io partendo da zero ero nel secondo e l’ho vinto. In finale sono andata al terzo set perché ero in confusione, troppa emozione, ma sono riuscita a ritrovare il mio gioco, dritto e servizio i colpi che sento meglio». Una vittoria molto importante per Giulia, che nel frattempo è stata tesserata dal Circolo Tennis Giotto di Arezzo: «Ho trovato un ambiente e delle persone speciali che mi sostengono e che sin dall’inizio si sono prodigate per me, cercando di comprendere quali potessero essere le mie esigenze e studiando il wheelchair tennis». Gli scorsi 30 e 31 dicembre è stato chiamato Alberto Setti, Ct della Nazionale, maschile e femminile, di tennis in carrozzina per uno stage che è servito agli istruttori per approfondire l’argomento e a Giulia per lavorare sodo: «Ho anche partecipato ad alcuni raduni azzurri».
La giornata tipo di Giulia è tutta incentrata sulla racchetta, da Terranuova Bracciolini arriva a San Giovanni Valdarno per prendere il treno, l’unica stazione di vallata attrezzata, gli istruttori passano a prenderla a quella di Arezzo e via al CT Giotto per gli allenamenti; il pomeriggio in palestra.
I genitori sono il suo primo sponsor perché nel wheelchair tennis si diventa subito professionisti, non essendo in molti, e una carrozzina costa minimo 3.000 euro: «A volte impiego i pomeriggi alla ricerca di nuovi sponsor. La racchetta? Io uso quelle normali, c’è invece chi le preferisce più leggere, visto che dobbiamo spostarci con la carrozzina, con grande rapidità». Ma c’è molto di più: «Adesso ho una nuova opportunità. Il tennis è soprattutto un confronto con se stessi, un allenamento fisico e mentale, è uno sport che ti mette a dura prova, in quello in carrozzina poi c’è grande empatia tra atleti, anche se in campo ognuno cerca di fare il suo». E tra le crepe della vita l’oro di Giulia sta iniziando a luccicare.