La principessa e il pallone
La storia che raccontiamo questa volta a tratti è controversa e spiazzante. Lo è nonostante i risultati raggiunti, lo è per i risultati raggiunti, lì dove con lo sport si cerca di dare un indirizzo e una casa a chi non ha mai avuto alcuno dei due, a chi non ha avuto niente dalla vita, se non una chance per riscattarsi, per dimostrare di valere qualcosa, nonostante tutto intorno gridasse il contrario.
Nasce tutto dal capriccio di una bambina, capriccio poi. Questa desiderava che tutti i suoi coetanei potessero realizzare i propri sogni, senza dovere affrontare guerre, fame, abusi o violazioni dei loro diritti. Gli adulti le dissero che questo desiderio era impossibile da realizzare, ma lei ha creduto che l’unica cosa impossibile fosse non provarci. Tanta determinazione spinse la bambina a dimostrare che aveva ragione e, così, sin da piccola la principessa qatariota Sheikha Al-Thani ha lavorato per realizzare il suo sogno e quello di tanti bambini molto meno fortunati di lei.
Ora, come potete comprendere, il rischio di scivolare nella facile retorica è forte, la beneficienza che arriva dall’alto e che non sai mai se soddisfa veramente dei bisogni o un singolo bisogno. Una nazione discussa come il Qatar, che ha fatto del calcio miliardario una moneta di scambio, una ricchezza difficile pure da immaginare, questo l’humus nel quale nasce la nostra storia, o forse proprio per questo la principessa ha trovato la forza di reagire e ribellarsi, anche come donna, alle imposizioni per trovare una strada e regalarne altre.
Sheikha Al-Thani nel 2013 ha fondato una propria charity: SATUC, Sheikha Al-Thani charity for Underprivileged Children e meglio non avrebbe potuto dirlo. L’obiettivo? Aiutare i bambini svantaggiati di tutto il mondo, liberandoli dalla povertà e dagli abusi. Oggi ha sedi pure a Londra e a Il Cairo e con progetti in Sudan, Filippine, Egitto e Londra, appunto. Come? Attraverso il calcio. Perché? Perché tanti sport solo disponibili sono alle classi benestanti, mentre il football è accessibile ovunque a chiunque, serve davvero poco. Inoltre, è lo sport più popolare del mondo, con buona pace degli anti, e rappresenta, anche per questo, un linguaggio universale capace di abbattere barriere linguistiche e culturali, sociali ed etniche, riunendo tutti intorno a un pallone.
Attraverso il calcio SATUC si propone di fornire a questi bambini le abilità sociali e accademiche che gli serviranno poi nella vita. Uno sport di squadra insegna tante cose: comunicazione, lavoro di gruppo, leadership, impegno, disciplina; tutte doti fondamentali, nella vita come nel lavoro. Il compito non facile è quello di riunire gli orfani, gli svantaggiati, i rifugiati provenienti da tutto il mondo e creare dei momenti di attività sportiva e scambi culturali; seguendoli nel loro percorso di crescita, umana e atletica. Che non significa solamente farli giocare a pallone, ma rassicurarli prima, formarli dopo e creare in loro quel senso di fiducia, uguaglianza e opportunità che mai hanno provato prima.
Per fare questo nel 2015 è stato organizzato il primo torneo SATUC a Il Cairo in Egitto con risultati strabilianti. Mohamed Ishaq ha vinto il trofeo come migliore giocatore della manifestazione e l’anno successivo era in tournée in Giappone, a Tokyo. Hadi e Mohamed Choukri, invece, sono stati ingaggiati da club professionistici egiziani, così come Ryan, inglese, che ha trovato un ingaggio in una squadra professionistica di Londra.
Nel 2018 la SATUC World Cup è stata organizzata a Sofia, in Bulgaria, dove dodici squadre formate da ragazzi svantaggiati hanno partecipato al torneo. Ha vinto la Nigeria battendo in finale la Liberia, terzi i padroni di casa e quarto il Marocco. Qui è successo qualcosa di particolare. I giornalisti bulgari hanno voluto dare un premio speciale a un componente della squadra liberiana: Edwin Johnson. Edwin ha manifestato grandi doti calcistiche e un comportamento esemplare, dimostrando come attraverso lo sport e la dedizione continua un bambino svantaggiato possa crescere e costruirsi un futuro migliore: amore per il calcio, rispetto per gli altri e gratitudine per il fatto di poter praticare lo sport preferito. Il presidente del BASJ (associazione che racchiude i giornalisti bulgari), al momento della consegna del premio ha avuto parole significative nei confronti di Edwin Johnson: «Molti di voi sono venuti in Bulgaria senza avere una famiglia propria. Ma ora siamo tutti parte della grande famiglia dello sport. Edwin goditi le nuove amicizie e ricorda che le lezioni apprese su un campo di calcio sono molto più preziose di qualsiasi medaglia. Credo che ciò che hai vissuto qui ti darà la forza e la speranza per andare avanti e… ricordate che in ognuno di voi c’è un ragazzo come Edwin».
Ecco, ci siamo dimenticati della principessa. Ma era naturale che accadesse perché lei è solo uno strumento, sicuramente consapevole, di un progetto che aiuta i bambini e i ragazzi a crescere nonostante tutto, difendendoli primariamente dagli abusi cui sono esposti, attraverso il calcio. Dietro il successo della SATUC, Sheikha Al-Thani charity for Underprivileged Children, però non c’è solo una rappresentante della casa reale qatariota, ma tante persone che lavorano con i bambini e i ragazzi, cercando di costruire un mondo migliore al grido di «Non dire mai: è impossibile. Puoi solo dire: non l’ho ancora fatto», rotolando dietro a un pallone.
Erbstein, il primo mago
Una vittoria netta, senza appello in casa della Spal (0-4) e la Lucchese, prima a pari merito col Novara con 48 punti, vince il campionato di serie B e conquista, per la prima volta nella sua storia, la promozione in A, era il 31 maggio 1936. Dieci giorni prima Pietro Badoglio aveva ceduto al generale Rodolfo Graziani il titolo di viceré d’Etiopia e il comando delle truppe; il 4 giugno, in Francia, il socialista Leon Blum formava il nuovo governo.
In quella squadra c’erano calciatori del calibro di Libero Marchini, oro ai Giochi Olimpici dello stesso anno con la Nazionale universitaria guidata da Vittorio Pozzo e che per l’occasione si fece fotografare con Jesse Owens, il portiere Aldo Olivieri, campione del mondo nel 1938 e Antonio Perduca cui il presidente, Giuseppe Della Santina, pagava un ingaggio di 35.000 lire, con i quali si comprò un’Aprilia.
Una vittoria conquistata, soprattutto, in casa dove i rossoneri, allenati dall’ungherese Erno Egri Erbstein vinsero sedici delle diciassette partite, perdendo solo il derby contro il Pisa per 1-2. Fuori casa il ruolino fu molto diverso, perdendo sia contro il Novara che contro il Livorno che alla fine sarà terzo con 47 punti. Il 31 maggio lucchesi e piemontesi sono appaiati a 46, livornesi dietro a 45, vincono tutti e i tre punti della formazione rossonera contro la Spal sono decisivi per la promozione, con 21 partite vinte, 6 pareggiare e 7 perse, 75 gol fatti (migliore attacco) e 33 subiti (seconda migliore difesa). Nel successivo campionato di serie A la Lucchese arrivò settima a pari punti con l’Ambrosiana Inter, con il Bologna campione d’Italia; il risultato più alto mai raggiunto dalla compagine toscana.
Artefice di tutto questo l’allenatore ungherese di origine ebraica Erno Egri Erbstein, dove Egri è il cognome che servì a lui e a sua figlia per scampare alla persecuzione nazista: «Aveva una luce speciale, è stato lui a fare la differenza per la Lucchese prima e il Grande Torino dopo. Sapeva trasmettere la sua energia ai giocatori, creare unità di anime. Mio padre era un umanista, un filosofo, un uomo giusto: per questo è stato un grande allenatore», ha ricordato la figlia Susanna Egri, ballerina nei teatri di Parigi e Firenze alla fine degli anni Quaranta e la prima danzatrice della storia a esibirsi, il 3 gennaio 1954, nella trasmissione ufficiale della Rai, che all’inizio dell’anno ha presenziato a un acclamato docufilm il quale ha ricostruito la storia del padre, «L’allenatore errante» (stesso titolo del libro di Leoncarlo Settimelli, pubblicato nel 2006), e a un memorial di calcio in suo onore a Capannori; nel 2019 uscirà in italiano la biografia scritta dalla figlia.
Erbstein, tra le altre cose, traccia le linee guida dell’allenatore moderno, la cui figura per tutti è stata letteralmente inventata da Helenio Herrera, in cui la dimensione atletica assurge alla stessa importanza di quella tattica: dal controllo del regime alimentare alla gestione del tempo libero. Il giocatore doveva essere un atleta, allenarsi tutti i giorni, stare a dieta e chi rientrava tardi la sera veniva preso a calci nel sedere dallo stesso Erno. In quella Lucchese allena uomini di grande personalità come Bruno Neri che trovava ogni scusa per non fare il saluto fascista e frequentava il Caffè delle Giubbe Rosse a Firenze, morto partigiano il 10 luglio del 1944. Bruno Scher, difensore roccioso di origine istriana cui fu chiesto di cambiare il cognome in Schere e lui smise di giocare a calcio. Libero Marchini, di famiglia anarchica che il padre voleva chiamare Libertario e il bomber Elpidio Coppa che prese tanti calci da Erbstein perché amava frequentare le balere.
Erno Egri Erbstein era nato a Oradea, oggi Romania, il 13 maggio 1898 e aveva avuto una modesta carriera da calciatore, provando anche l’avventura negli Stati Uniti. La sua evoluzione d’allenatore si compie esclusivamente in Italia: Fidelis Andria, Bari, Nocerina, Cagliari e ancora Bari, prima di approdare alla Lucchese nel 1933. Con i rossoneri conquista due promozioni, dall’allora serie C alla B e poi da questa alla serie A, ma nel settembre del 1936 Roberto Farinacci sul quotidiano «Il regime fascista» inizia una campagna contro gli ebrei. Quando nel 1938 vengono emanate le leggi razziali fasciste la vita a Lucca per gli Erbstein si fa difficile: «Per evitarmi umiliazioni mio padre mi portò a Torino».
Ferruccio Novo lo vuole in granata ed Erno si porta dietro Aldo Olivieri. Ma nemmeno Torino è più sicura, così dopo una stagione, si tenta lo scambio con Ignac Molnar allenatore dell’RFC Rotterdam. Questi arriva in Piemonte, ma Erbstein è fermato alla frontiera dai nazisti ai quali, alla domanda a quale etnia appartenga, sorridendo, risponde: «Alla razza umana». Costretto a riparare a Budapest, con l’aiuto del presidente Novo, trova lavoro come rappresentante tessile per una ditta italiana. nel frattempo Novo si affida a suoi consigli per costruire il Grande Torino, come gli acquisti di Ezio Loik e Valentino Mazzola. Quando nel 1944 l’Ungheria è occupata dai nazisti Erno Egri Erbstein finisce in un campo di lavoro dal quale riesce a scappare e, salvandosi più volte la vita a vicenda con la figlia Susanna, riesce a trovare rifugio nel consolato svedese insieme a molti altri ebrei, fino all’arrivo dei sovietici. Finita la guerra torna a Torino e vince l’ultimo titolo di quella straordinaria generazione di calciatori, morendo insieme a loro il 4 maggio 1949 nella tragedia di Superga.
In questi ultimi mesi a Lucca si è aperta la discussione se intitolare a questo grande allenatore e grandissimo uomo lo stadio dove giocano i rossoneri, considerando non solo la sua vita, ma il suo legame con il momento più alto e importante del calcio lucchese, che non ha mai più rivissuto quei fasti e quelle soddisfazioni. I contrari hanno detto che: «Il Porta Elisa non si tocca… un’iniziativa del genere potrebbe avere una giustificazione e un riconoscimento solo e soltanto se frutto di un processo che venga dai tifosi». Insomma, da quelli che non sanno niente e non intendono onorare la storia della quadra per la quale, a parole (cori), dicono di tifare. Se questo è football.