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Il Pallone d’Oro torna a casa

Il Pallone d’Oro torna a casa. Lì dove è nato e dove si è nutrito di talento, dov’era diventato il sogno di tutti i grandi campioni, creando una magia unica per il vincitore. Il Groupe Amaury, infatti, che attraverso il Groupe L’Équipe controlla il settimanale France Football, ideatore del premio nel 1956, ha annunciato la fine della partnership con la Fifa, che dal 2010 aveva portato alla nascita dell’omonimo pallone d’oro, unendo lo storico trofeo con il Fifa World Player, voluto da Joseph Blatter; giornalisti da una parte, capitani e Ct delle nazionali dall’altra, che insieme, nelle ultime otto edizioni, l’hanno assegnato quattro volte a Messi e due a CR7. Il matrimonio era costato al governo del calcio mondiale 15 milioni di euro e pare che proprio il vil denaro sia la causa della rottura, oltre che la voglia di rilanciare l’immagine del settimanale che, come tutti i giornali, ha passato giorni migliori. Un giornalista francese del gruppo, che ha preferito rimanere anonimo, ha confermato al Foglio: “Credo sia solo una questione di soldi più che d’immagine, senza contare l’imbarazzo degli sponsor per gli scandali dell’ultimo anno”, ma vista la tempistica non ci pare che si siano imbarazzati più di tanto.

Paolo Condò

Colpisce, comunque, come in un calcio votato al business (con ragioni più che valide), si cerchi un romantico ritorno al passato, anche se ancora non sappiamo se i paletti del Pallone d’Oro torneranno a essere quelli di un tempo: successi di squadra, performance individuali e influenza sui primi, fair play e carriera, a scalare. Pare invece che a votare torneranno a essere solo i giornalisti, non sappiamo se 211 come le nazionali affiliate alla Fifa o meno, in una democratizzazione pedatoria che ha presentato più volte il conto: “Le Isole Vanuatu, fino a ieri, avevano tre voti, come l’Italia, voti di persone che avranno visto gli highlights dei gol di Messi e Cristiano Ronaldo ma che non avevano bene idea di cosa o chi rappresentasse il meglio del football mondiale, non potendolo assaporare dal vivo e da vicino”, ha detto Paolo Condò, giornalista Sky, giurato italiano del Pallone d’Oro. Che qualcosa si sia perso in questo connubio lo confermano sia Paolo Condò, appunto, che Roberto Beccantini, il quale andando in pensione ha lasciato il posto in giuria e il testimone al collega. Nel 2010, infatti, la prima edizione del premio riunita sotto il cappello della Fifa l’ha vinta Messi, davanti a Iniesta e Xavi, campioni del mondo con la Spagna in Sudafrica, snobbando Milito, uno dei protagonisti del triplete interista, e soprattutto Wesley Sneijder che oltre ad aver vinto tutto con l’Inter aveva portato l’Olanda in finale. Così come il Franck Ribery del 2013 che con il Bayern Monaco ha vinto campionato e coppa di Germania, Champions League, Supercoppa Europea e Mondiale per Club, arrivando però solo terzo dietro CR7 e Messi.

Messi

“Vincere è la parola chiave, il campione che vince è quello che poi può aspirare al Pallone d’Oro”, sottolinea Condò: “Francesco Totti, per esempio è un giocatore straordinario, ma ha vinto solo in Italia e solo uno scudetto”. Sul fuoriclasse della Roma Roberto Beccantini ha un aneddoto interessante: “Mai ricevuto pressioni per votare, diciamo che tra i cinquanta designati da France Football si cercava di non disperdere i voti, poi è chiaro che c’era sempre qualche intruso o qualcuno che era stato dimenticato (su tutti Paolo Maldini, vincitore di cinque Champions League e terzo nel 2003, ndr). Le uniche pressioncine le ricevevo dai colleghi di Roma che volevano che votassi Francesco Totti, ma secondo i paletti del premio era difficile poterne perorare la causa”. Nel 2006, per esempio, Totti aveva vinto il Mondiale come Pirlo, Buffon e Cannavaro, ma fu meno protagonista degli altri. La parata del portiere della Nazionale su Zidane in finale resterà nella storia, ma gli unici gol subiti dall’Italia erano stati l’autogol di Zaccardo e il rigore del francoalgerino, in sette partite, e così fu premiato il muro di Berlino.

Fabio Cannavaro

France Football e il Pallone d’Oro fanno pensare al calcio di qualche anno fa, a quando non c’erano solo Messi e CR7 a ritirare i premi: “È un riconoscimento per il quale i giocatori andrebbero a piedi fino a Parigi, per la magia che rappresenta, la notizia quindi è positiva e ne sono felice, ma evitiamo discorsi da reduci. Era meglio negli anni Ottanta? Era meglio quando si vedeva un solo tempo di una partita in televisione? Non credo, il calcio ha storture che andrebbero aggiustate, ma quelle importanti, altrimenti è solo un gridare al lupo al lupo e poi si perde di credibilità”, afferma Paolo Condò. Anche Roberto Beccantini plaude alla fine della partnership tra Pallone d’Oro e Fifa: “Blatter era un genio, del male. Ad agosto si faceva intervistare sulle porte allargate, è quello del passaggio indietro al portiere, poi avrà pensato di unire i due trofei per distogliere l’attenzione da altre cose”. “Se quando c’era Indro Montanelli avessimo votato per il migliore giornalista italiano premiando lui non avremmo mai sbagliato. È un po’ quello che è accaduto con Messi e Cristiano Ronaldo in questi anni, però il Pallone d’Oro di France Football è una cosa diversa”, dice Beccantini. “Come il Pulitzer o come l’Oscar, ecco torna a essere una manifestazione simile, e farne parte è una grande soddisfazione personale e professionale, dove sarà premiato il campione che nell’anno solare avrà fatto meglio degli altri con il club e/o la Nazionale”, ribadisce Condò.

Cristiano Ronaldo

Tom Sunderland su bleacherreport.com scrive che così Messi e CR7 potranno vincere due premi invece che uno, ma crediamo che nella sua analisi si sia perso dei pezzi importanti. Secondo un antico motto: “Gli inglesi hanno inventato lo sport, i francesi le competizioni (dalla Coppa dei Campioni ai Mondiali, dagli Europei alle Olimpiadi, ndr), che poi vincono i tedeschi”. Il Pallone d’Oro è andato in Germania sette volte, alla pari dell’Olanda, e dopo il terzo posto di Neuer nel 2014 potrebbe tornarci ancora. E la Fifa? Per alcuni alla base della rottura col Groupe Amaury ci sarebbe la volontà del nuovo presidente Gianni Infantino, che preferirebbe un premio gestito in proprio e votato solo dai capitani e dai commissari tecnici delle nazionali affiliate. Difficile pensare che possa rispolverare il vecchio Fifa World Player e comunque si ritroverebbe, come un tempo, in concorrenza col più famoso e prestigioso Pallone d’Oro: “È stato il primo e lo resterà per sempre, c’è una magia che non ha nessun altro riconoscimento”, ricorda Beccantini. La storia del calcio unita alla sua Bibbia (com’è sempre stato chiamato France Football) per rimembrare i tempi andati o per portare entrambi nel futuro? Solo il tempo scioglierà queste curiosità e ci dirà se l’operazione ha avuto senso, per se, per il settimanale, per i calciatori e per tutti gli appassionati. Detto questo, nell’anno in corso CR7 ha vinto la Champions League con il Real Madrid segnando il rigore decisivo e l’Europeo col Portogallo da protagonista, anche quando infortunato. Aspettate un attimo, ci pare di vedere qualcuno che da Madrid si sta incamminando verso Parigi.

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La tratta dei calciatori bambini

Aimar Centeno nel 2002 ha vinto il reality show argentino «Camino a la Gloria», o se preferite «Glory Road». Il programma, ideato dal giornalista e uomo d’affari argentino Mario Pergolini, andò in onda sul Canale 13 nazionale mettendo in palio un provino col Real Madrid. Dodicimila i ragazzi riuniti in un campo di polo per vedere cosa sapevano fare col pallone tra i piedi e solo 42, tra i 12 e i 17 anni, furono selezionati per la fase finale, avendo come giurati Roberto Perfumo, “Pepe” Basualdo, Carlos Mac Allister e Javier Castrilli. Come in un film, Aimar fu portato subito a Madrid rilasciando un’intervista dietro l’altra, neanche fosse il nuovo Redondo. La prima settimana le cose andarono bene, poi il ragazzo iniziò a incontrare qualche problema psicologico e senza alcun aiuto fu rispedito in Argentina. Non sappiamo se il suo ritorno fosse già previsto e il Real Madrid era solo una farsa legata alla trasmissione televisiva, ma per Aimar iniziò la discesa. Fu acquistato dal River Plate che lo spedì a giocare nelle serie minori, dopo sei mesi da titolare s’infortunò; Rosario Central, Chacarita e Sarmiento de Junin le squadre in cui ha giocato dopo, senza più rivedere i campi della Primera Division argentina. Oggi è rappresentante della Coca-Cola nella sua città natale.

Non è una storia nuova quella di Aimar Centeno, basta fare un giro nei campi della provincia italiana per trovarne di simili, ragazzi bravi con i piedi ma non con la testa, quelli che al momento del grande salto si sono infortunati gravemente, chi non aveva la famiglia alle spalle, chi mancava della giusta raccomandazione. Sogni infranti sul più bello, ma almeno senza l’illusione costruita ad arte, come nel caso di Aimar e di migliaia di bambini e ragazzini che in Asia, Africa e America Latina vengono quotidianamente setacciati per trovare il nuovo Messi o il nuovo Neymar, che frutterà milioni di euro a chi saprà piazzarlo e gestirlo. Migliaia strappati dalla loro povertà, certamente, ma anche dai loro giochi, dai loro amici, con l’inganno di cambiare vita per sé e la propria famiglia, per poi perdersi in un Paese straniero o tornare dove prima, peggio di prima.

Aimar Centeno

Una vera e propria industria che senza mezze parole può essere paragonata a qualsiasi altra tratta di esseri umani e che, ciclicamente, viene a galla come quella che ha bloccato il mercato del Barcellona. La Fifa, infatti, vieta il trasferimento dei minori, norma che viene aggirata facendo arrivare i genitori, cui viene trovato un lavoro. I blaugrana sono stati sanzionati, ma agisce così pure il Real Madrid e altri grandi club europei. C’è chi apre scuole calcio in giro per il mondo, ma il meccanismo di fondo resta invariato. Il giornalista cileno Juan Pablo Meneses ha raccontato in un libro («Ninos futbolistas») quello che accade a questi ragazzi e chi lucra sul loro talento, vero o presunto, libro che in Italia è stato tradotto dall’Aic ed edito da Goalbook Edizioni; una denuncia verso un sistema che alimenta false speranze: «I ragazzini sognano di diventare famosi, le famiglie di uscire dalla povertà, i procuratori cercano il guadagno e i grandi club di acquistare a basso costo i campioni del domani», scrive Meneses sottolineando l’autoalimentazione di un’illusione così potente.

Ninos futbolistas

Il Real Madrid ha aperto scuole in Bolivia e Guatemala, che non sono nemmeno due Paesi famosi per aver prodotto calciatori di talento, ma decisamente più invasivo è il metodo del Barcellona che con Nike The Chance ha perlustrato qualcosa come 50 milioni di bambini nel mondo: «Un’operazione – afferma Juan Pablo Meneses – cui ha partecipato Pep Guardiola e che i blaugrana hanno fatto con il logo Unicef sulle proprie maglie». Un altro che è finito nel tritacarne è stato il cileno Nelson Bustamante, arrivato al Brescia per 300.000 dollari e oggi al Matera in Lega Pro, anche se questo ha più a che fare con le capacità intrinseche di un giocatore di adattarsi e di confermare le proprie qualità ad alti livelli, che spesso è la cosa più difficile. Meneses è molto netto, condannando i premi di formazione stabiliti dalla Fifa, che secondo lo scrittore cileno alimentano ancora di più il meccanismo, senza dimenticare invece che quelli, nazionali e internazionali, servono semmai per finanziare il movimento di base, senza il quale non esisterebbe nemmeno quello patinato.

Juan Pablo Meneses

Ma Meneses punta il dito soprattutto contro Messi: «Il Barcellona ha preso un ragazzo per pochi soldi e oggi vale 130 milioni di euro per 65 chili, due milioni al chilo. La dirigenza racconta sempre che fu preso per aiutarlo con dei problemi di salute, dimenticando o facendo finta di dimenticare che se la sua squadra vinceva 10-1 nove reti le segnava Messi. Lui ha creato il mito dei ninos futbolistas». Accuse dure, corroborate da un libro inchiesta che ha portato lo scrittore in giro per il mondo e rendendo paradigmatica la storia di Milo, protagonista del suo racconto. Chi storce il naso dimentica il fenomeno africano legato alla Francia, dove uomini senza scrupoli portano (soprattutto dal Camerun) i ragazzi, chi funziona bene, gli altri vanno a ingrossare le file dei sans papiers, abbandonati al peggiore dei destini. Meneses ha individuato un sistema di procuratori e amici degli amici attraverso cui passano i ragazzi prima di approdare ai grandi club europei perché, come in Italia, non si arriva solo grazie alla testa e al talento ben mixati, si arriva grazie anche alle conoscenze e alle raccomandazioni. Uno su mille ce la fa, dice Meneses, è non è detto che sia lui il più bravo.