post image

HEYSEL, le verità di una strage annunciata


HEYSEL, le verità di una strage annunciata
prefazione di Walter Veltroni
pagine 248
euro 15,00
lingua italiano

– Compralo Subito –


È una mano pietosa e indignata, quella di Francesco Caremani che ci guida in quel 29 maggio 1985, il giorno in cui lo sport dismise i panni dell’amicizia e della gioia per vestire quelli del dolore e della violenza.
Avvenne, a Bruxelles, ciò che in molti avrebbero potuto facilmente prevedere ed evitare, e non vollero o non seppero farlo. Quel giorno lo stadio del gioco diventò lo stadio della morte, una morte trasmessa in diretta e in mondovisione. Una morte che si mescolò col gioco del pallone (e per questo fu più crudele e più odiosa) che portò via il soffio della vita a chi avrebbe voluto semplicemente applaudire, vincere o perdere con la propria squadra, coi propri beniamini. E invece persero tutti, nonostante la coppa alzata, il giro del campo, nonostante i sorrisi, i ‘non sapevamo’, nonostante il gol. Nonostante la vittoria, persero tutti, in quella sera luttuosa all’Heysel, quando il battito del cuore improvvisamente cessò per trentanove persone. Erano italiani in gran parte, ma il necrologio riporta anche quattro nomi belgi, due francesi e uno irlandese. Il più giovane aveva undici anni e si chiamava Andrea. Seicento furono i feriti.
Le cronache ci raccontarono che la violenza degli hooligans inglesi non rispettò nemmeno i poveri corpi senza vita, oltraggiati col furto, con la denigrazione. La pietà muore più volte, e ciò che chiamiamo bestiale è, purtroppo, proprio dell’Uomo, non della ferinità, poiché solo l’Uomo può adoperare con consapevole raziocinio la crudeltà, l’offesa, il gesto delittuoso fine a se stesso. Scriveva Salvatore Quasimodo in “Uomo del mio tempo”, nel 1946, cogli orrori della guerra davanti agli occhi: “(…) Hai ucciso ancora,/ come sempre, come uccisero i padri, come uccisero/ gli animali che ti videro per la prima volta./ E questo sangue odora come nel giorno/ Quando il fratello disse all’altro fratello:/ «Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,/ è giunta fino a te, dentro la tua giornata (…)”.
Anche all’Heysel si udì quell’eco, nelle urla degli hooligans, nel silenzio della polizia belga, nei piani di sicurezza mal attuati. È facile alzare la mano sugli innocenti, sui più deboli, sugli inermi. Questo ci insegna la strage dell’Heysel: il Male ha una sua feroce semplicità, lo si incontra anche nel luogo che per sua fattura dovrebbe invitare all’amichevole aggregazione, come uno stadio. E invece no: il gioco è il pretesto, la violenza è il fine. Quegli hooligans cercavano lo scontro, questo ci racconta il libro, e cercavano d’uccidere, dopo aver fatto crescere l’eccitazione con fiumi di alcol.
Nelle pagine successive i lettori troveranno ricostruzioni esatte e agghiaccianti. Un testimone così racconta: “Queste cose dovete scriverle. Quelli del Liverpool avevano pistole, forbici, coltelli, spranghe. Hanno ammazzato un ragazzo con un lanciarazzi, ho visto tutto con i miei occhi… È cominciato tutto col lancio di razzi. Dalla zona degli inglesi ne è arrivato uno, poi un altro e un altro ancora. Il quarto razzo ha colpito in pieno un tifoso. Era a venti metri da me. L’ho visto cadere, era una maschera di sangue. Nessun poliziotto è intervenuto”.
I lettori troveranno spiegazioni, opinioni, denunce. Troveranno le cronache dei processi, i pareri degli avvocati. Troveranno le parole di Otello Lorentini, l’anziano padre di Roberto, uno dei morti dell’Heysel cui è dedicato il libro. Roberto è morto mentre tentava di salvare un bambino ferito con la respirazione bocca a bocca.
Quando Caremani chiede il motivo per cui ha deciso di costituire l’Associazione tra le famiglie delle vittime di Bruxelles, Lorentini risponde che non poteva sopportare che si pensasse anche solo per un attimo che “39 persone erano morte da sole, per pura fatalità”. Arrivando alla fine del libro, quelle parole saranno una delle chiavi di lettura dell’intera vicenda, perché quel giorno della fine di maggio del 1985 furono gli uomini e non il Fato a decidere come in un’antica arena romana se avesse dovuto esserci il pollice verso, e fu così che morirono gli innocenti dell’Heysel: qualcuno li uccise, qualcuno lasciò fare.
Caremani è un ottimo giornalista. Ci emoziona, ci commuove anche, eppure ci avverte a ogni passo di non lasciarci distogliere dal dolore, perché oltre il dolore deve esserci giustizia. Non è un lieto fine, quello che l’autore ci racconta, né potrebbe esserlo, poiché non c’è letizia per chi ha perso i propri amici e familiari, ma c’è un risultato importante che l’impegno di Otello Lorentini e di altri riescono a raggiungere: la condanna della Uefa non è solo un atto giudiziario, ma indica un dovere di assunzione di responsabilità. Caremani sa bene che la giustizia degli uomini non è infallibile, ma è conscio di come quella sentenza rappresenti davvero un fatto storico per la giurisprudenza.
Questo libro è prezioso e bellissimo. Lo è perché ci ammonisce a non dimenticare, e perché narra puntualmente e con notizie verificate tutto ciò che è accaduto; ma lo è anche perché è un libro d’inchiesta che ha dentro la passione del diario, della pagina biografica. Caremani dichiara che questo è il libro che non avrebbe voluto mai scrivere, eppure ciò che è avvenuto ha trasformato queste pagine nel “suo libro”.
Dentro e dietro il cumulo di dimenticanze, di superficialità, di pressappochismo, di mancanze, di colpe, l’autore indaga con la passione di chi ha ricevuto il testimone più scomodo: quello della memoria. Egli raccoglie indizi, ascolta e riferisce, forse affinché quel suo dolore si asciughi almeno un poco, e davvero quel dolore, quel nodo scuro, quel groppo alla gola che Caremani si portava dentro, si trasformano in coraggio e tenacia. La rabbiosa voglia di sapere diventa forte denuncia civile, diventa un pezzo di storia da leggere e conservare, diventa testimonianza lucida e critica di un massacro evitabile.
Voglio bene a questo libro: è un grande atto d’amore verso trentanove innocenti, e un monito a non perdere la strada dell’umanità e della pietas.

Walter Veltroni

post image

Oltre il 90°


Oltre il 90°
presentazione di Nando Scarpelli
pagine 160
euro 15,00
lingua italiano
fuori catalogo


Un nuovo fischio d’inizio, una nuova partita. Si scende tutti in campo.
Un match importante in cui a fronteggiarsi sono da un lato Flavio Falzetti, il capitano, e tutti i suoi amici, compagni, medici. Dall’altra la sua malattia.
È questa la partita che da circa dieci anni Flavio Falzetti atleta, calciatore, ma soprattutto uomo sta “giocando” con la Bestia, come la chiama lui.
Diagnosi di Linfoma di Hodgkin nel 1999 non responsiva al trattamento chemioterapico di prima linea, né alla terapia di salvataggio e neppure al trapianto di midollo osseo autologo.
Solo successivamente, alcuni anni di tranquillità, la squadra sembra aver trovato la tattica giusta, si và all’attacco, si segna e si ritorna a casa con la voglia di riprendere a vivere, con la consapevolezza che la nebbia si dirada e rende più nitidi i colori.
Poi una nuova recidiva, il Linfoma cambia la sua faccia, si trasforma. Si scende nuovamente in campo, si riforma la squadra, ci si guarda negli occhi, si sa qual è l’importanza del risultato. Non servono parole.
Nel 2004 s’inizia una nuova terapia che non elimina la malattia ma permette di mantenerla nella sua metà campo.
Nel 2008, forse, la possibilità di vincere definitivamente ma si sa che è importante guadagnare terreno, capire esattamente i punti deboli della Bestia.
In tutto questo tempo, poi, con l’interruzione di una carriera importante nel mondo del calcio, c’è stato l’impegno civile di Flavio, la consapevolezza dell’importanza della sua esperienza di calciatore non professionista colpito da una malattia oncologica. L’impegno nel sensibilizzare il mondo dello sport a farsi carico di una problematica così importante come la salute dei giovani calciatori. Un corretto controllo medico nelle società sportive dilettantistiche e la possibilità di una copertura assicurativa del giocatore non professionista.
Si sa che le partite sono vinte dalla squadra, tutti ne sono consapevoli e a volte è proprio il capitano a dare le giuste motivazioni, la grinta ad andare avanti stimolando gli altri.
Di tutto questo Flavio n’è consapevole e sa anche che la squadra che lo ha sostenuto sinora sarà con lui anche nel futuro non solo per vincere questa importante partita, ma, soprattutto, per tornare a pensare e vivere come un uomo “normale” con i propri progetti e il proprio futuro.

dottor Nando Scarpelli
Responsabile del Servizio di Oncoematologia
Presidio Ospedaliero di Spoleto, Perugia

post image

Ciclismo, brava gente


Ciclismo, brava gente
prefazione di Candido Cannavò
pagine 140
euro 25,00
lingua italiano

– Compralo Subito –


Non riesco a pensare al ciclismo senza pensare ad Alfredo.
Credo sia questo il più bel complimento che si possa fare a un uomo come Martini, che io non chiamerò mai un monumento, perché i monumenti hanno solo bella presenza, ma non seguono la vita, come il nostro impagabile amico, la osservano dall’alto.
Lui no: il bello di Alfredo è questo porsi pudicamente in prima linea, con gran rispetto per gli altri, ma anche con piena coscienza del suo ruolo, del suo carisma, di quello che può donare agli uomini che sono arrivati dopo di lui e soprattutto al ciclismo che lo fa soffrire e gioire, ma nel quale si identifica quasi tutta la sua vita.
Qualche tempo fa m’invitarono all’Università Statale di Milano ad ‘arbitrare’ una tavola rotonda dal titolo Il futuro degli anziani.
Avevo alla mia destra un gigante della nostra cultura: il regista Mario Monicelli, anni 91. E alla sinistra un santone del giornalismo, che veleggia al di là degli ottanta: Piero Ottone. È stata un’ora di delizie durante la quale la bellezza dei ricordi si proiettava in avanti in un futuro senza tempo. Ecco, io chiamerei Martini e altri della sua generazione e della sua tempra a far da testimoni sulla bellezza della cosiddetta vecchiaia e sui tesori che vi si racchiudono.
Quelli che guardano un vecchio con sospetto, che lo emarginano dal cosiddetto incalzare della vita, non sanno quello che si perdono.
Questo libro di Francesco Caremani è prima di tutto un atto d’amore. E chi comincia a sfogliarne le pagine entra subito nel clima di una favola, perché sembrano favole i tempi della povertà e della guerra in cui sono fiorite le storie e le carriere di una generazione. Nulla era impossibile, ogni giorno era una sfida nuova e via via nel buio si aprivano spiragli di luce. E lo sport aiutava a vivere e sognare. Tutte le prediche più dotte non valgono una storia di vita come questa.
Nel mio rapporto affettuoso con Martini c’è una grande mediatrice: “La Gazzetta dello Sport”. Non c’è giorno in cui Alfredo non l’abbia in mano come compagna della sua vita. E se gli piace un mio articolo s’attacca al telefono e me lo dice: alla sua maniera, senza un aggettivo di troppo. «Bravo direttore». E io lo ringrazio. Tutto qui. E ringrazio anche il cielo di avermi fatto conoscere una persona come lui.

Candido Cannavò

post image

Calcio Marcio Show


Calcio Marcio Show
coautore Paola Strocchio
pagine 128
euro 4,00
lingua italiano

– Compralo Subito –


L’Italia ha attraversato gli ultimi cento anni e più di calcio scivolando più volte nello scandalo: dalla semplice violazione delle regole di giustizia sportiva e ordinaria alle partite combinate sulle quali si arricchiva il totonero, al doping reiterato e mai pienamente confessato, nonostante le tante morti sospette.
L’Italia mondiale cerca adesso di risollevarsi da una sconfitta etica e morale senza precedenti, ma lo può fare solamente se saprà operare una vera pulizia di tutto il marcio che si era annidato nell’italico calcio degli ultimi vent’anni.
E non solo, perché se da una parte le scommesse e le combine rappresentano uno degli aspetti più miseri di un calcio che non vorremmo mai vedere e che troppo spesso finisce in tribunale, il doping è qualcosa di più subdolo e pericoloso. In verità non sappiamo se può condizionare l’esito di una partita come un accordo clandestino, ma può condizionare, lo ha già fatto, potrebbe farlo ancora con nomi eclatanti, la vita di una persona, di un calciatore che ha attaccato le famigerate, ormai, scarpette al chiodo.
In questo libro abbiamo ripercorso la storia di Calciopoli, o Moggiopoli se preferite, attraverso una ricostruzione minuziosa dei passaggi più importanti, abbiamo riletto per voi la storia di cento anni di scandali, casi di doping compresi, abbiamo intervistato figure emblematiche del mondo del calcio e del giornalismo, sportivo e no, abbiamo riflettuto sulla necessità o meno di un’amnistia…
In queste pagine troverete tutto quello che c’è da sapere sull’inchiesta, sulla sentenza e sulle condanne che hanno cambiato per sempre il volto del pallone tricolore, perché niente sarà più come prima, soprattutto dopo aver letto le intercettazioni telefoniche.
Tra scudetti revocati e retrocessioni nelle categorie inferiori il calcio è riuscito sempre a rinascere, come la fenice dalle sue ceneri, vedremo se anche questa volta, data l’entità dello scandalo, sarà così. In queste pagine capirete come ha fatto il football a mondarsi ogni volta, ma soprattutto com’è sempre stato facile scivolare nell’illegalità, sotto varie forme e con personaggi sempre diversi eppure dai ruoli definiti: presidenti, dirigenti, tesserati, allenatori, giocatori, arbitri e faccendieri d’ogni risma.
L’unico che resta fuori da questa lista non è il tifoso che continua a credere ciò che vuole per amore di maglia, ma il vero sportivo, pugnalato al cuore della correttezza e del rispetto delle regole.

post image

Il calcio sopra le barricate


Il calcio sopra le barricate
pagine 174
euro 13,50
lingua italiano
fuori catalogo


Il ’68 per molti, anche per quelli, tanti, che lo hanno rinnegato, ha rappresentato lo spartiacque della seconda metà del Novecento, la coscienza della società borghese occidentale che è stata costretta a guardarsi pubblicamente allo specchio.
Un’intera generazione è passata attraverso un momento totalizzante che per alcuni è durato un anno, per altri di più, per alcuni non è mai finito.
In mezzo a tutto questo, in mezzo alle occupazioni universitarie, alla guerriglia urbana, a una nuova coscienza popolare, l’Italia del calcio realizzava il sogno, vincendo gli Europei, dopo la grande delusione dei Mondiali inglesi e la beffa coreana.
Ferruccio Valcareggi è il vate della nuova Nazionale che torna a vincere dopo le vittorie di Pozzo negli anni Trenta. Una vittoria inattesa, per questo ancora più bella, la vittoria di una generazione di giocatori, la meglio gioventù, che sarà ricordata per Italia-Germania 4-3…
Francesco Caremani, attraverso le testimonianze dei protagonisti di allora ha voluto ripercorrere quei momenti e fissare alcune, significative, immagini di quell’epoca. A metà tra l’aneddoto e il ricordo, cercando di cogliere quel cono d’ombra che ogni cambiamento generazionale lascia dentro ognuno di noi.
E in un gioco di rimandi la vittoria dell’Italia agli Europei, la monetina che ci fa vincere la semifinale contro l’Urss, la doppia finale contro la Jugoslavia e una vittoria attesa e meritata, bella e stranamente dimenticata dal calcio italiano.
Fotografia lieve, ma non superficiale, di una generazione che ha portato la fantasia al potere solamente rincorrendo un pallone di cuoio.
Alla vigilia degli Europei, che si svolgeranno in Portogallo, un modo curioso e affascinante di rivisitare il rapporto della Nazionale con questa manifestazione, mai pienamente fortunato, e in particolare l’unica vittoria che i colori azzurri possono vantare.
Era il ’68.

post image

Le verità sull’Heysel


Le verità sull’Heysel
prefazione di Roberto Beccantini
pagine 150
lingua italiano
fuori catalogo


Premetto: sono juventino e ho sposato Liliana con la musica di «You’ll never walk alone», l’inno del Liverpool, la squadra inglese del mio cuore. Lo era prima dell’Heysel, lo è rimasta dopo.
C’ero anch’io, quella sera. Lavoravo per la Gazzetta dello Sport, avevo contribuito a prepare un inserto celebrativo che, come tale, sarebbe uscito soltanto in caso di vittoria. Naturalmente, non uscì. Ricordo che faceva caldo e che all’improvviso, in una porzione di stadio alla mia sinistra, si scatenò l’inferno. Trentanove morti sono il prezzo dell’apocalisse e possono diventare la ragione di un libro, questo. Un libro scomodo, va detto subito.
E di parte. Ma della parte giusta.
Francesco Caremani ha scavato fra lacrime e autopsie, spiegando come e perché allo sdegno e al dolore provocati dalla carneficina, evitabilissima, si siano aggiunti altro sdegno e altro dolore, per le lungaggini di una burocrazia troppo distratta e per il disimpegno di un apparato sportivo che si è chiamato fuori dalla tragedia con disgustoso senso di irresponsabilità.
Era il 29 maggio del 1985. L’Heysel è stato buttato giù e ricostruito, adesso si chiama stadio «re Baldovino», e del settore Z, il famigerato settore Z, trappola fatale e mortale, è scomparsa ogni traccia.
In realtà, l’Heysel e il suo «gulag» vivranno sempre. Mai come quella sera sarebbe bastato un briciolo di efficienza organizzativa per scongiurare l’eccidio. Le autorità belghe e l’Uefa peccarono di omessa prevenzione. La furia degli hooligans inglesi completò l’infame opera.
Lo straziante paradosso è che l’ecatombe di Bruxelles è servita più agli inglesi che a noi, più agli aggressori che agli aggrediti. A ogni incidente, non si parla che del loro modello e delle loro leggi, dure, severe, immediate. Noi ci abbiamo capito poco. E siamo sempre lì, a morderci la coscienza, un decreto e un emendamento, un emendamento e un decreto.
Se non proprio l’io narrante, Otello Lorentini, che all’Heysel perse il figlio, Roberto, è una sorta di Virgilio che scorta l’autore nell’inferno del «durante» e del «dopo». Lorentini è stato il presidente dell’Associazione costituita fra le famiglie delle vittime di Bruxelles. Ha trasformato la sofferenza, indicibile, in energia propositiva e riparatrice, ha sfidato tutti, e a tutti ha bussato, pur di evitare che «quella povera gente morisse una seconda volta».
Non è stato facile, e ci è voluto tempo. Qualcosa, alla fine, ha ottenuto. Imbarazzi, diffidenze e reticenze ne hanno accompagnato la strenua azione di rottura. Al posto di Giampiero Boniperti avrei nascosto e poi riconsegnato a chi di dovere quella stramaledetta coppa. La partita venne giocata esclusivamente per scongiurare altre risse, altri lutti. Fu vinta su un rigore non meno inesistente della inesistenza del diritto a considerare ufficiale una recita così macabra e così fuori del mondo (il mondo civile). Impossibile dimenticare certe scene di esultanza, impossibile non stigmatizzarle: anche se dal pulpito i fendenti costano meno e vengono meglio.
La memoria va allenata, e queste pagine sono palestra per esercizi che la pigrizia degli italiani tende sistematicamente a schivare, soprattutto se portatori di ricordi agghiaccianti e di atteggiamenti non proprio edificanti. Al di là dei risarcimenti, e del poco o molto che è stato fatto, non bisogna mai arrendersi all’inerzia. L’Heysel è un peso che ci portiamo dentro. Non riusciremo mai ad appoggiarlo da qualche parte. Non sarebbe neppure giusto. Trentanove morti per una partita di calcio. Forse (anche) per biglietti smerciati alla carlona, sicuramente per ubriachezza molesta e carenza di ordine pubblico. La campana del destino prima o poi suona per tutti, ma quando i rintocchi assordano uno stadio, non resta che ribellarsi.
O documentarsi, come ha fatto Francesco. Senza astio, senza paura, senza secondi o terzi fini. Pane al pane. L’Heysel è stato una tragedia. La speranza è che la contabilità del sangue e delle urla aiuti a prevenirne altre. Perché il tempo sia galantuomo, serve che lo siano anche gli uomini, e le loro istituzioni.
Leggete queste pagine: non scoprirete novità sconvolgenti. Scoprirete, semplicemente, com’è stato duro accendere una candela di giustizia. Una candela, non un lampadario.

Roberto Beccantini

post image

Angeli e Diavoli rossoblù


Angeli e Diavoli rossoblù
presentazione di Giacomo Bulgarelli
coautore Fabrizio Calzia
pagine 160
euro 15,00
lingua italiano

– Compralo Subito –


Al Bologna ho dato il cuore e l’intera carriera.
Anche i ginocchi, malandati negli ultimi tempi, nel tentativo di raggiungere a trentacinque anni, il record di presenze con la maglia rossoblù. E il Bologna mi ha dato i momenti più belli, la parte più importante della mia vita.
Sono nato lì, nel mio Bologna, a 13 anni, e per ventidue campionati sono rimasto, nonostante le offerte e le tentazioni. Come quando Fulvio Bernardini non mi faceva giocare e io mi arrabbiai talmente da prendere in considerazione l’offerta di Nereo Rocco che mi voleva al Padova. Poi per fortuna rimasi, anche perché scoprii che quello di Bernardini era soltanto un modo per mettere alla prova il mio carattere, per conoscermi e capire chi ero e che cosa poteva fare. È stato uno die miei maestri, uno dei più importanti della mia carriera.
L’altro è stato Edmondo Fabbri, un uomo unico ma troppo moderno per il calcio di quegli anni: il suo gioco e il suo carattere non erano in sintonia con il resto del mondo calcistico. In più, era troppo emotivo e sono state queste le cose che non gli hanno permesso di emergere come avrebbe meritato.
Sono anche stato fortunato, nella mia vita di calciatore. Il Bologna di quegli anni era fortissimo e, anche se un po’ per caso, ci trovammo ai vertici, a lottare e a vincere con le squadre che da sempre hanno fatto la storia del calcio italiano.
Momenti importanti, emozionanti, che rimangono nei ricordi perché hanno qualche cosa d’incredibile: lo spareggio scudetto a Roma nel 1964, le due coppe Italia del 1970 e del 1974, anni che non si sono più ripetuti, che restano un ricordo entusiasmante per me che li ho vissuti da protagonista.
Avrei voluto rimanere, anche se non ho mai pensato a una carriera di allenatore: con il mio carattere impulsivo non sarei proprio adatto! Avrei preferito avere a che fare con le scartoffie, vedere quel mondo da un’altra prospettiva ma oggi rimango comunque legato a quella squadra, alla scelta di non cambiare mai. Da tifoso, come da giocatore: quando mi chiese il Milan – in ballo c’erano un bel po’ di soldi per la squadra e per me – ci pensai soltanto un attimo, poi consigliai Fogli. Io rimasi e non mi sono mai pentito di questa decisione.
Il calcio è rimasto nella mia vita, lo racconto in televisione, mi piace viverlo in modo calmo, razionale, ragionando seriamente sulle cose che succedono.
Certo il calcio dei miei tempi era un’altra cosa. Esordii nel 1958 e, quell’anno, ero anche impegnato nella maturità classica: mio padre mi disse che andava bene il calcio ma che se non riuscivo a inserirmi subito nella squadra, a giocare con continuità, sarebbe stato meglio che abbandonassi tutto, che mi dedicassi seriamente agli studi, perché quella era la cosa davvero importante. Erano anni in cui ho giocato con Sergio Campana, quello che gli studi li ha proseguiti e che adesso è presidente dell’Associazione Italiana Calciatori.
In Nazionale ho avuto meno fortuna, mi sono infortunato nei momenti più delicati ma il mio amore per la maglia azzurra è stato enorme e tutte le volte che l’ho indossata mi sono sentito orgoglioso di essere stato scelto, di rappresentare l’Italia nel mondo.
Oggi a Bologna, città con un’unica squadra e che quindi non vive la passione del derby, è nato un clima di sfida e di rivalità tra i due sport maggiormente seguiti. Tra il calcio e il basket, però, non si è creata alcuna tensione, non si fa a gara per rubarsi i tifosi, anzi: si va allo stadio, si vede la partita e poi tutti al palazzetto a godersi i canestri e si finisce tutti a cena insieme, con grande amicizia e rispetto.
Qui sono stato sfortunato! Tifo Fortitudo e di fronte ai successi della Virtus… non c’è proprio nulla da fare!
A questa Bologna nella quale ho vissuto momenti unici, ai tifosi, a tutti i palloni che volano e rotolano all’ombra delle torri, dedico questo libro.

Giacomo Bulgarelli

post image

Uomini e maghi


Uomini e maghi
prefazione di Roberto Boninsegna
coautore Fabrizio Calzia
pagine 144
euro 15,00
lingua italiano
fuori catalogo


L’Inter… sono le cose più belle e le cose più brutte della mia vita di calciatore, sono quella maglia che ho sognato e quella squadra che mi ha fatto aspettare per troppi anni, sono le vittorie che ho vissuto e quelle che ho visto soltanto da lontano.
Dopo cinque anni nelle giovanili nerazzurre, al momento di entrare nella rosa della prima squadra, di giocare finalmente nel calcio che conta, pesano ancora oggi quei tre anni lontano da Milano, quei prestiti annuali, al Prato, al Potenza (e fu l’anno più brutto: avevo chiesto di rimanere vicino a Mantova ma mi risposero che se non andavo a Potenza dovevo smettere di giocare), al Varese, mentre l’Inter vinceva tutto quello che poteva vincere, mentre io perdevo gli anni migliori, miei e della squadra, le vittorie importanti.
Ogni anno mi prestavano, ritornavo e ripartivo, fino a quando mi vendettero al Cagliari. Una stagione bellissima, che mi permise di indossare finalmente la maglia azzurra ma era anche quella azzurra e nera che continuavo a sognare! È arrivata, l’anno dopo, nello scambio con Domenghini, Gori e Poli e mi ha permesso di vivere quei sette anni bellissimi, da titolare, nello stadio che ho amato e davanti a tifosi che mi hanno sempre capito e amato e ai quali rimpiango di non aver potuto dare più anni a San Siro. Sì, perché dopo l’Inter è arrivata la Juventus, la nemica storica: un passaggio doloroso anche perché un’altra volta ho capito che l’Inter pensava di non aver bisogno di me. E invece a Torino ho dimostrato di valere ancora, di poter contribuire a vincere trofei di grande prestigio, anche se ero stato ceduto perché ormai la società e il presidente Fraizzoli pensavano che fossi ormai un calciatore a fine carriera.
Certo il mio carattere non mi ha aiutato: se avessi assunto atteggiamenti più morbidi, se fossi stato più accondiscendente, forse avrei potuto viaggiare su una strada meno accidentata ma è anche grazie al mio carattere che sono riuscito a rimanere a galla, a non lasciarmi demoralizzare negli anni iniziali in serie B, alla mia cessione alla Juventus o quando in Nazionale sono riuscito a giocare soltanto grazie all’infortunio di Anastasi, perché purtroppo Valcareggi non ha mai creduto veramente nelle mie capacità.
Però ho vissuto sicuramente momenti molto belli, nella mia carriera: l’anno a Cagliari, il rientro all’Inter – anche se la mia rivincita, nel veder riconosciuta la mia importanza in squadra, è stata una “vittoria di Pirro”: quegli anni ormai erano persi per sempre per me – e, dopo il disagio iniziale, gli anni a Torino.
Oggi guardo questo calcio sempre più veloce, sempre più tattico, che sta lasciando in secondo piano lo spettacolo e che diventa sempre meno bello. Non voglio sembrare uno di quelli che rimpiangono i bei tempi andati ma non si può non vedere che è cambiato molto nel mondo del calcio.
Se ci sono state persone che, in vari modi, hanno influito negativamente sulla mia carriera, c’è però chi mi è stato sempre vicino, quelle persone a cui penso sempre con infinito affetto: i tifosi della curva interista, i Boys, ai quali dedico un pensiero speciale e questo libro.

Roberto Boninsegna

post image

Il Diavolo e i suoi profeti


Il Diavolo e i suoi profeti
prefazione di Gianni Rivera
coautore Fabrizio Calzia
pagine 144
euro 15,00
lingua italiano
fuori catalogo


Ho usato tanto i piedi ma, soprattutto, forse ho usato la testa.
Per un calciatore i piedi sono importanti, spesso è soltanto per quello che sono riusciti a fare che uno viene ricordato. Ma, ieri come oggi, il calcio è un mondo chiuso, in cui valgono regole rigide e non discutibili, un mondo in cui è difficile essere accettati se si decide di pensare in modo autonomo, se si sceglie un modello diverso, se la testa non serve soltanto per fare gol.
Attorno al calcio ci sono sempre più interessi economici e più potere, sempre meno sentimenti, emozioni, romanticismo ma non me la sento di dire che allora, negli anni Sessanta e Settanta, tutto ciò fosse molto diverso. Il calcio non è pulito né sporco, è come tutto il resto, è un pezzo di mondo e ne rispecchia i lati buoni e quelli cattivi, le virtù e le magagne.
Vedevo già allora gli aspetti positivi, la vita agiata che il giocare a pallone ci permetteva ma mi sono sempre interessato anche a quello che succedeva fuori, nelle classi sociali meno fortunate, tra i giovani che non avevano avuto simili opportunità. E il mio impegno sociale, soprattutto nell’associazione Mondo X, non è mai stata vista di buon occhio, un dispendio di energie… Se, nel Milan e nella Nazionale, sono riuscito a giocare ad alti livelli e per tanti anni, lo devo alle persone che hanno creduto in me e mi hanno dato la possibilità di crescere e di giocare, forse perché anche loro amavano usare la testa, oltre ai piedi.
Penso a Pedroni che mi fece esordire nell’Alessandria a 15 anni, e allora l’Alessandria era in serie A! E che mi portò al Milan. Penso a Gipo Viani che si oppose al mio prestito al Padova, all’importanza nella mia crescita che hanno avuto persone come lui e come Nereo Rocco. È grazie a loro che per diciannove anni ho potuto indossare la maglia rossonera e, anche se con minor fortuna, quella della Nazionale.
Eppure se penso a quegli anni, alle vittorie, e sono state molte, alle soddisfazioni che la carriera mi ha dato, mi rendo conto che più degli scudetti o delle coppe, ci sono tra i miei ricordi più belli le parole che mi dedicò France Football, nel 1969, nell’anno del Pallone d’oro: «In un calcio arido, cattivo, con troppi dubbi di doping e premi elevati, Rivera è il solo a dare un senso di poesia a questo sport».
Dalle persone e con le persone con cui ho vissuto la mia esperienza nel mondo del calcio ho imparato molto. Ma chi più ha contato in questi anni è stato Nereo Rocco: è a lui che desidero dedicare un pensiero particolare e queste parole.

Gianni Rivera

post image

All’ombra dei giganti


All’ombra dei giganti
Libri di Sport
prefazione di Fabrizio Calzia
pagine 125
lingua italiano
fuori catalogo


Come tutti i fenomeni che riguardano la nostra, ma anche tutte le altre società, il calcio propone numerose sfaccettature, angolature, punti di vista. Prospettive che implicano la presenza di un soggetto, di un individuo, auspicabilmente – e il più possibile – dotato di una propria personalità che si traduca in originalità. Riducendo il tutto a estrema sintesi, e limitandosi qui al mondo del pallone, si può distinguere fra il calcio come consumo, come merce, e il calcio come cultura, cioè fenomeno da osservare con quel minimo di distacco necessario per capire, carpire i segreti, leggere nelle righe e fra le righe di un racconto che, da più di un secolo, si rinnova domenicalmente, i suoi aspetti più autentici e personali.
A questa seconda categoria di osservatori appartiene Francesco Caremani, giornalista attento e naturalmente pronto all’approfondimento, a quell’andare oltre le cose (del calcio, ma anche della vita) che è proprio delle personalità più sensibili e meno superficiali. Grazie a lui nascono opere come queste, libri che vanno oltre la patina della notizia come nudo e crudo fatto di cronaca, come evento consumato ma non necessariamente ragionato, assimilato, riflesso.
Opere che non si soffermano sul “Grande Evento” strillato. Oggi più che mai, esaltato, strombazzato anche attraverso spot pubblicitari che ne scandiscono l’avvicinarsi attraverso una sorta di count down, irritante per tutti coloro che amano la sostanza, e non l’apparenza delle cose, per tutti coloro che apprezzano il beau geste dell’atleta in quanto tale e NON perché così definito dal cronista-strillone di turno.
Opere necessarie. Per conservare la memoria, la cultura di un campione, di una squadra, di una partita, attraverso un racconto piano e garbato, senza la necessità di dovere per forza gonfiare i fatti attraverso la ridondanza degli aggettivi.
All’ombra dei giganti ripropone, ma solo all’apparenza, la sfida di Davide contro Golia, attraverso un lavoro che ricorda quello dell’archeologo in quanto scava in profondità e riporta in superficie l’essenza dello sport: la sua umanità.
Un libro da leggere e da ri-leggere, un’opera destinata a nostro avviso, molto più di tante iniziative e decreti, a salvare davvero il calcio. Inteso come quell’espressione di cultura e di vita che tutti conosciamo e amiamo.

Fabrizio Calzia